Varcare una frontiera che non c’è

 

diyarbakir, varcare una frontiera che non c'è

 

Diyarbakir,varcare una frontiera che non c'è

 

Siamo appena arrivati a Diyarbakir. È notte, piove e si respira un’aria poco rassicurante. Affaticati dai voli affrontati per raggiungere la “capitale” curda, prima di attraversare i controlli all’uscita dell’aeroporto, ci accordiamo con l’accompagnatore italiano. Ci dice di non tirar fuori macchine fotografiche e cellulari, di non nominare mai le parole “kurdo” o “Kurdistan”, di non attirare in alcun modo l’attenzione e di lasciar passare prima lui. Nel caso lui venisse fermato, noi dovremmo uscire dall’aeroporto senza guardarlo mai in volto e proseguire da soli.

“Lo dico per voi, è un modo per tutelarvi – dice – e se vi fermano, dite di essere dei semplici turisti!”.

“Perché? Non lo siamo?” – mi chiedo.

Certo che lo siamo, ma con l’intento, al ritorno, di raccontare ciò che vediamo e sentiamo. Noi siamo turisti, viandanti, viaggiatori e reporter che cercano di capire, documentare e far conoscere. 

Secondo Verity Campbell della “Lonely Planet” Diyarbakir deve la sua notorietà al fatto di essere stata, a partire dagli anni ’80, il centro del movimento di resistenza curdo. “In nessun’altra città della Turchia orientale incontrerete persone così orgogliose di essere curde – scrive la Campbell – Diyarbakir rimane la roccaforte dell’identità e della tenacia curde. Ma la situazione oggi è migliorata e passeggiando per le strade di questa città, si stenta a credere che sia stata il principale teatro degli scontri tra i ribelli del Partito dei lavoratori curdi (Pkk) e l’esercito turco. Alcuni viaggiatori la trovano pericolosa, altri la vedono come una città misteriosa che non rivela facilmente la sua anima”.

Passati indenni i controlli, saliamo sull’autobus direzione Grand Hotel Güler. Con noi c’è Garip, un ragazzo curdo che ci farà da guida attraverso questo Viaggio di Conoscenza. Il suo aspetto sembra un mix fra Che Guevara ed il protagonista del telefilm anni ‘80 Ralph Supermaxieroe. Garip è il figlio del gestore di un locale ricavato da una nicchia del Caravanserraglio Hasan Paşa Hani, nel quartiere Dağkapı. Caratterizzato da un’alternanza di pietra bianca e nera, il Caravanserraglio risale al Sedicesimo secolo, epoca in cui veniva usato come stalla per i cammelli; ristrutturato nel 2006, oggi ospita negozi di gioielli, tappeti, ottone, argento, antiquariato e kefieh.

Qui assaggiamo uno dei migliori caffè, si tratta del kurdish coffeè, una miscela di caffè macinato e pistacchi dall’aroma piacevole e avvolgente, servito in tazzine di ceramica su piccoli tavoli ricoperti da tappeti dove il braciere di un narghilè alla mele verde arde sempre. Tra un sorso e l’altro impariamo le prime parole in curdo, come spas (grazie), rojbas (buongiorno) e sherbas (buonasera). Parole semplici ed utili per noi turisti, giunti da lontano in questa zona di frontiera. Susciteremo spesso uno sguardo di orgoglio e gratitudine quando al posto dell’ostico teşekkür ederim turco pronunceremo spas per ringraziare qualcuno.

Vicino a noi c’è la grande muraglia in basalto nero, caratteristica principale di Diyarbakir. Lunga cinque chilometri e mezzo, è considerata la seconda cinta muraria più lunga al mondo dopo la Grande Muraglia cinese; intervallata da bastioni e torri, è un imponente esempio di architettura medievale. Decidiamo di salire arrampicandoci su per le scale di una delle cinque porte; dall’alto si apre una visuale immensa e si scopre una baraccopoli infinita di case basse, una attaccata all’altra, con gente che riposa sdraiata all’ombra, uomini che allevano piccioni, gatti che dormono al sole, cisterne d’acqua sui tetti, ragazzini che camminano con ciambelle di pane in testa e bambini che giocano all’elastico, come facevamo noi quando eravamo piccoli, legandolo al polpaccio e saltando fuori e dentro con una gamba e poi con tutte e due. In un ritmo di vita lento e semplice.

Silvia Argentati

(il pezzo è stato scritto prima che Diyarbakir tornasse ad essere una città in guerra)

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