Ancora una testimonza sul Fornaciari

sulla presa della Rocca

 

il tempo della satira

 

 

di Leonardo Badioli

L’occupazione della Rocca di Senigallia, avvenuta nel 1789 – un anno particolarmente adatto per occupare rocche e bastiglie – per opera di tal Francesco Fornacciari, o Fornaciari, e di tre altri pregiudicati dalla giustizia pontificia, non finisce di sfornare documenti e testimonianze. Ho raccolto i più significativi in un piccolo volume pubblicato dall’editrice Ventura sotto il titolo Assalto alla Rocca, ma anche dopo la pubblicazione continuano ad affiorare documenti manoscritti con nuove memorie. Dopo la copia manoscritta del De Fornacciari Conjuratione commentarius, in possesso di Giorgio Mosci – noi l’avevamo a stampa – qualche giorno fa è stata la volta di un poemetto satirico sull’argomento. Lo storico Virginio Villani me lo ha inviato per posta elettronica perché lo vedessi: si tratta di un componimento di cinquanta terzine di ottonari in rima AAA BBB CCC… molto semplici e versate alla satira e alla derisione. Le rime si incentrano su due momenti cruciali dell’impresa: lo sbigottimento della città di fronte a quanto stava accadendo e lo sdegno per la sua conclusione, dove l’autorità pontificia, anziché punire i responsabili, li premia per ottenerne la resa.

La lettura dei versi è facile e divertente, e può essere intesa anche senza grandi spiegazioni; tuttavia non nuocerà la menzione di alcuni fatti contestuali che ne possono orientare il senso; per esempio che già l’anonimo autore del Commentarius (il racconto originario su cui si fonda il libro da me curato) aveva già annotato come la linea di condotta proposta e perseguita dal Cardinale Legato non godesse affatto dell’approvazione generale. “Pur potendo usare la forza per spazzare via gli occupanti”, vi si trova scritto, “il Cardinale Legato preferiva offrire loro perdono e pace piuttosto che pene e castighi”; anche se non qualcuno, ma “tutti in assoluto cercavano di dissuadere l’inviato del Legato dall’adottare un simile atteggiamento”.
Il testo della satira in versi che qui riproduciamo, con qualche lieve ritocco nell’interpunzione, mostra un inizio ben consapevole degli stilemi che si usano in una composizione poetica, e ne utilizza il lessico e gli schemi; man mano che procede, però, l’ignoto autore sembra adagiarsi su una versificazione più plebea e su uno sprezzamento sempre più infastidito e puntiglioso di fatti e persone. L’occupazione è vista sull’effetto che produce sui diversi ceti, il nobile, l’artigiano, il mercante, l’ebreo del ghetto addirittura, e sull’animo femminile, prima le suore di clausura, e come loro “ogni donna”, e più da vicino la moglie del soldato che esce di casa per affrontare quei terribili banditi. L’accenno al Brugnetto lascia trasparire un’allusione al luogo di residenza del castellano Bernardino Antonelli, il Casino delle Cento Finestre; segue ad esso una critica all’accadimento che rammenta i termini generali della questione: non è bene “patteggiar con quei briganti” per il decoro dell’autorità e per non creare precedenti di eccessiva accondiscendenza verso quelli che sono a tutti gli effetti dei criminali.
Ma il rimatore non si ferma qui. Nella parte finale rompe gli indugi e dà sfogo al sarcasmo: critica l’establishment in toto ed estende il disprezzo anche agli sbirri (la canaglia) e ai soldati (la ciurmaglia) che fronteggiano gli occupanti. In modo particolare se la volta con due ecclesiastici: uno è il frate del Servi di Maria, Filippo Padovani, l’uomo che più si adopera per districare la complicata situazione; l’altro è il canonico Telloni, probabilmente quel Francesco Ansaldo Teloni che figura una volta, per poi non ritrovarsi più, tra le “più di seicento” persone che si assiepano attorno al commissario del Cardinale Legato. Questo secondo personaggio non è certo un primattore nel Commentarius.

La grafia del manoscritto è riconoscibile come assai prossima al tempo in cui fu compiuto il grande oltraggio; è piuttosto chiara, e solo due parole non risultano a me comprensibili. Altre sono oggi desuete: il ferraiolo è un ampio mantello a ruota usato prevalentemente dal clero; il rocchetto è un paramento liturgico consistente in una veste bianca con pizzo lunga fino ai ginocchi. Un altro motivo che determina la contemporaneità di questo scritto con gli avvenimenti sta nel fatto che l’autore conosca per soprannome il tamburino: da nessun altro documento ricaviamo che lo chiamassero Bruschiŋ.
La qualità dei personaggi e la precisione dei termini ecclesiastici sembra in ogni modo inclinare il poeta satirico verso una critica interna al mondo curiale; anche se questi indizi non bastano per risalire all’identificazione dell’autore o per tracciarne la fisionomia. Chi conosce ormai bene questa curiosa storia potrebbe forse riuscirci: nel caso lo faccia sapere.

 

Sopra la presa della Fortezza di Sinigaglia
fatta dal Fornacciari ed altri Malviventi
la sera del dì 10 ottobre 1789

Oh che sera di tristezza
Fu allorquando con destrezza
Venne presa la fortezza

Sinigaglia sbigottita
Chiede al Ciel pietade e aìta
Ahi per me, dice, è finita

Ogni donna divien brutta
Per la tema, e trema tutta
E le luci spesso asciutta

L’Artigiano ed il Mercante
Sbalordito e titubante
Divien pallido e tremante

Ogni Nobile sospira
Dei Banditi teme l’ira
Ripetendo: Ohimé si tira!

V’è più d’un che per scansare
Ogni rischio vuole andare
Da lontano a dimorare

Han paura i Preti e i Frati
mentre intanto radunati
Sono i Birri ed i Soldati

Con il pianto ancor le Moniche
Giovanette e Vecchie croniche
Van bagnando le lor toniche

Troppo appresso è il lor convento
Alla Rocca, onde anche il vento
Le riempie di spavento

Temon forse e con ragione
Che le palle del Cannone
Non le rechin confusione

Van piangendo in Parlatorio
Sospirando in Dormitorio
Lacrimando in Refettorio

Han si’ grande la paura
Che ognuna ormai procura
Di violar la clausura.

Atterrito ogni Cannonico
Siede in coro malinconico
Né più canta in tono armonico

Ma frattanto Fornaciaro
Dà il mestier di Cucinaro
A Bruschin Tamburinaro

Ei cucina ma il bastone
Gli si appogia sul Groppone
Senza alcuna discrezione

Fornaciar fa da sovrano
Crede di essere Castellano
E comanda in modo strano

Già si è posta la multura [?]
E paseggia con altura
Della Rocca in sulle Mura

Vuol che il Pifaro e il Tamburo
Suoni il solito sul muro
La mattina e quando è scuro

Fa suonare i quarti e l’ore
Fa gridar voci sonore
Alto all’erta di buon cuore

Ma frattanto si dà l’ordine
Che le Truppe siano in ordine
Per por freno a un tal disordine

Ogni fante vanne in schiera
Ed intanto la mojera
Piange e fa cattiva cera

Nel Brugnetto e in ogni villa
Canta mesta il Dies illa
Ogni donna piange e strilla

Dove vai, dice al marito
Rimarai morto o ferito
Di […] ho già finito

Torna presto, o caro bene
Tu lo sai ch’io vivo in pene
Senza te chi mi sovviene?

Dei Soldati la Ciurmaglia
E dei Birri la Canaglia
Ecco inonda Sinigaglia

Preparato è ogni Sargente
Ogni alfiere, ogni Tenente
La battaglia è imminente

Ma un Servita con Telloni
Voller farla da Strapponi
Da Mezzani e da Cazzoni

Patteggiar con quei Birbanti
Che uscirebber tutti quanti
Dalla Rocca in quegli Istanti

Ed intanto anche il Legato
Per sei mesi gli ha accordato
La franchigia nel suo Stato

Dunque premiasi il delitto
Stupirà se ciò vien scritto
Anche l’Affrica e l’Egitto

Dunque invece di conquidere
La baldanza e farli stridere
Son premiati, e ben da ridere!

Qui la sua ognun vuol dire
E Tellon per comparire
Lungo ammanto ha da vestire

A pigliar sen va di volo
Veste lunga e Ferraiolo
Per far corte all’empio Stuolo

Riunito al Fraticello
Va con esso nel Castello
Per estrarne il rio drappello

Tutti allora attenti stanno
Per veder quanti saranno
Perché il certo non ne sanno

Vi è chi dodici ne conta
Altri sette, otto, quaranta
Altri trenta e altri cinquanta

Mentre ognun sta ben attento
Ecco si apre in un momento
La Fortezza, e a passo lento

Esce il Frate e a ciascun lato
Gli sta un Birbo ben armato
Del Complotto sventurato

Dietro poi siegue il Felloni
Stante in mezzo a due Birboni
Della Squadra dei bricconi

Per tal fatto io parlo schietto
Fu deriso ancora in Ghetto
Il Capuccio ed il Rocchetto

Un Canonico del Duomo
Ch’esser crede un galantuomo
Fa ai briccon da maggiordomo

Un ch’è Servo di Maria
Ancillare per la via
Vuol Canaglia tanto ria

Così sta: non hanno onore
Due ministri del Signore
Di far corte a un traditore

Così avien: genti malnate
Son protette e spalleggiate
Da un Canonico e da un Frate

Così va: Capuccio e cotta
Fanno a gara e fanno a lotta
Per protegger l’empia Flotta

Tanto strepito e bisbiglio
Per cui timida alza il ciglio
Sinigaglia ed è in periglio

Si dilegua in un momento
Come nebbia al Sole al vento
E ognun canta in lieto accento

Ecco il monte ha partorito
il sorcietto, e fuori uscito
Lo spavento è già svanito

Quattro birbi fan paura
Sinigaglia alle tue mura
Riderà l’età futura

I Banditi la vittoria
Cantan lieti, e tale Istoria
Sia dei posteri a memoria.

                       

 

 

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