L’Unità d’Italia era necessaria e priva di alternative

 

 

Intervista in esclusiva al professor Marco Severini*

a cura di Leonardo Badioli

Senigallia - le truppe piemontesi entrano da porta Lambertina (o porta Fano) il 13 settembre 1860. L' autore della tela è Buratti Roberto
Senigallia – le truppe piemontesi entrano da porta Lambertina (o porta Fano) il 13 settembre 1860. L’ autore della tela è Buratti Roberto

 

Naturalmente conosci molto bene il lunotto nel quale si raffigura l’ingresso dei Piemontesi a Senigallia attraverso Porta Fano. Cosa puoi osservare? Pensi che se fossimo stati lì con la macchina fotografica avremmo ritratto la stessa cosa che qui viene dipinta?

Direi proprio di no. Si tratta di una rappresentazione in buona parte oleografica, ma anche veritiera. Le bandiere italiane fuori dal balcone erano già state esposte nelle maggiori città marchigiane l’11 e 12 marzo 1860, all’epoca del plebiscito con cui i toscani, emiliani e romagnoli avevano deciso di unirsi al Piemonte liberale.

Quale poteva essere lo stato d’animo degli occupanti (o liberatori)? Sentivano l’importanza di entrare nella città natale del papa?

Gli occupanti erano piemontesi e quindi italiani. Il potere di Pio IX si reggeva da un decennio sui presidi militari austriaci e francesi, che invece erano stranieri. Pur non avendo simpatia per la causa sabauda, non ci può essere dubbio – almeno sul piano storiografico – che il regime del concittadino Mastai Ferretti era illiberale, autoritario e autocratico, mentre quello di Vittorio Emanuele II era liberale, laico e moderno, in quanto era l’unico che aveva conservato lo Statuto e quello che, grazie a Cavour, aveva affermato l’interpretazione parlamentare della carta costituzionale, facendo di conseguenza dipendere la vita dei governi non solo dalla fiducia del sovrano, ma anche e soprattutto dalla maggioranza parlamentare.

In ogni caso, i soldati piemontesi avvertivano l’epocalità del momento anche perché quando giunsero a Senigallia, il 13 settembre 1860, avevano molte ore di marcia sulle spalle, ma nonostante ciò ingaggiarono battaglia con i papalini che tentavano di rinchiudersi in Ancona.

Quale poteva essere lo stato d’animo della città natale del Papa all’ingresso dell’esercito sabaudo?

Era uno stato d’animo dimezzato per gli alfabeti, difficile da cogliere per gli analfabeti. Tra i primi non mancavano sinceri patrioti ed esponenti liberali che erano stati democratici in gioventù, ai tempi della prima guerra d’indipendenza e della Repubblica romana; d’altra parte i fautori del papa non erano pochi, ma in molti di loro – come documentano tre distinti libri che ho curato tra 2010 e 2011 – si era insinuato da tempo l’idea del tramonto irreversibile dello Stato pontificio.

Inoltre Senigallia vantava da oltre mezzo secolo il progressivo radicamento degli ideali liberali e patriottici tra la piccola-media borghesia e parte della nobiltà di più aperte vedute.

Nel quadro si vedono tre persone dall’aspetto molto popolare che assistono all’arrivo dei soldati. Come hanno vissuto il passaggio di consegne i quartieri poveri della città. Quello del Porto per esempio?

Esistono pochi studi sull’argomento. E’ però indubbio che lo Stato italiano si fece conoscere, all’indomani dell’Unità, anche con gli sgradevoli volti delle tasse e della leva obbligatoria che pesarono enormemente sulle condizioni generali dei ceti subalterni. Tra l’altro nel 1869 sarebbe stata definitivamente abolita la fiera franca che per quartieri come il Porto costituivano un’autentica boccata di ossigeno.

Fu effettivamente difficile fare gli italiani, ma era sempre meglio una penisola politicamente unificata che la continuazione di dinastie vecchie, tutt’altro che legittime e superate dai tempi.

Se tu che sei di ascendenza laico-democratica fossi stato presente, cosa avresti fatto in quella giornata? 

Sicuramente avrei festeggiato e, se ignorante, mi sarei fatto raccontare che cosa stava accadendo. Forse avrei pensato che si era chiusa, come diceva Mazzini, l’età dei diritti, affermata dalla rivoluzione francese, e iniziava quella dei doveri. Non casualmente il best-seller del genovese, i “Doveri dell’uomo”, uscì proprio nel 1860.

Pensi che i senigalliesi si rendessero conto che unendosi all’Italia la città avrebbe perso le franchi- gie e i privilegi che l’avevano resa importante, considerato anche che il papa era senigalliese?

Forse questa consapevolezza apparteneva a poche persone, ma non mi pare un aspetto determinante. Numerosi senigalliesi avevano lottato nel 1849 per gli ideali democratici e repubblicani e avevano appreso che la patria non era costituita dai cittadini che abitavano all’interno della cinta muraria – come pochi anni prima aveva ribadito un reazionario come Monaldo Leopardi – ma aveva confini più ampi e andava costruita con il contributo politico, civile e culturale degli italiani. Non a caso, quarant’anni dopo l’Unità, Senigallia si rivelò un formidabile laboratorio politico, dando vita ad un’amministrazione comunale di larghe intese (cattolici, repubblicani, socialisti, liberali progressisti) che tra 1905 e 1910 riformò e ammodernò l’economia e la vita cittadina (la cosiddetta “tregua amministrativa”).

Come è trascorso a Senigallia il periodo in cui c’è stato il commissario Valerio, tra il 17 settembre 1860 e il 17 marzo 1861?

Si sono avuti cambiamenti sensibili nella vita cittadina?

Valerio si trattenne a Senigallia due settimane e la rese primo capoluogo delle Marche sabaude; stanziò 186.200 lire per potenziare la funzionalità del porto miseno e 200.000 lire, insieme ad altri incentivi, in favore dell’istruzione. Erano somme cospicue e fecero un certo effetto. Inoltre il commissario piemontese istituì a Senigallia uno dei tre licei appositamente creati nelle Marche e assegnò al Municipio il fabbricato del Convento dei Minori di S. Giacomo per dare vita ad un ente di beneficenza. Furono adottate anche altre misure, ma già queste mi sembrano significative. Ripeto: gli anni successivi l’Unità non furono facili per Senigallia, ma uscendo fuori dalla secolare dominazione clericale non poteva essere diversamente.

Pensi che le donne avranno apprezzato il fatto che con l’arrivo dei piemontesi non ci sarebbero stati più i tribunali ecclesiastici?

Anche questa è una bella domanda. Bisognerebbe chiederlo a loro. Posso dire che non poche donne – essendo escluse dal voto – firmarono degli appelli in favore dell’annessione, circostanza che accomunò Senigallia – come hanno dimostrato i libri da me curati “Le Marche e l’Unità d’Italia” (2010) e “Libertà e Proprietà” (2011) – alle altre principali località marchigiane. Quanto al foro ecclesiastico, al diritto d’asilo e alle altre anticaglie già spazzate via dalla legislazione sabauda negli anni cinquanta dell’Ottocento, mi pare che fossero incompatibili all’interno di uno Stato liberale e nazionale.

E il clero? Non si ricorda nessun prete senigalliese che fosse favorevole all’unificazione?

Anche su questo argomento ho sentito per tanti anni racconti favolosi. Chi avesse la pazienza di andare ad esaminare il voluminoso Fondo Valerio, ottimamente conservato presso l’Archivio di Stato di Ancona, scoprirà che in tutte le Marche alcuni preti votarono in favore dell’annessione e furono, di conseguenza, scomunicati. Questo ci dice che sotto traccia era già presente l’idea, non già di una opposizione intransigente ai tempi moderni, ma di un tentativo di trovare una conciliazione e un dialogo tra Stato e Chiesa. Così come si stavano gettando le premesse per far uscire i cattolici dall’auto-isolamento post- unitario e conferire loro un ruolo da protagonisti negli scenari cittadini e nazionali.

Dieci anni dopo l’ingresso dei piemontesi a Senigallia nacque a Monte San Pietrangeli Romolo Murri, l’uomo poi sacerdote che avrebbe cambiato la storia del movimento cattolico italiano.

Quale apporto ha dato la comunità ebraica senigalliese al processo unitario?

Non conosco studi sul tema. Posso però dire che nel 1849, ai tempi della Repubblica romana, tantissimi ebrei avevano partecipato alla vita pubblica, alcuni di loro erano andati a combattere ed erano morti per la causa nazionale ed altri – come Salvatore Anau e Leone Carpi – avevano seduto sui banchi della Costituente romana. Proprio Carpi diventerà uno scrittore e un analista particolarmente attento ai costumi marchigiani.

Il voto nel plebiscito ha dovuto scontare la rassegnazione verso l’ineluttabile o erano convinti?

Il 4-5 novembre 1860 il 63, 79% dei marchigiani votò in favore dell’annessione, conferendo piena legittimità al processo in atto. Le scomuniche del papa tennero lontani diversi elettori, ma non risultarono affatto decisive. Lo fu invece l’atteggiamento dei proprietari terrieri che, avendo colto le opportunità che poteva dischiudersi da un mercato libero e nazionale, premettero sui loro dipendenti affinché votassero sì. Ma tali pressioni erano largamente praticate e accettate nell’Europa più moderna del tempo. In ogni caso la pressione è una cosa, i ventilati brogli tutt’altra.

Altro che ti senti di dire.

Solo una. La formazione dello Stato nazionale italiano fu un evento fondamentale nella nostra vicenda storica. Gli studi più accreditati hanno dimostrato, dati e fonti alla mano, che questa formazione era necessaria e priva di concrete alternative. I revisionismi e l’uso pubblico della storia (da parte della politica, dei giornalisti e di altri soggetti), che anche di recente sono tornati a sottolineare la “disunità d’Italia”, costruiscono un altro tipo di operazione, ma non fanno storia: quest’ultima si basa su una ricerca lunga, severa, deontologicamente corretta e, il più delle volte, lunga e faticosa.

 

*Marco Severini insegna Storia del Risorgimento presso la Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università di Macerata. Vincitore nel 1999 del Premio Nazionale di Cultura “Frontino – Montefeltro”, è autore e curatore di una quindicina di volumi sulla Storia Contemporanea Italiana.

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