Gentile Signor Ludd

 

 

Gentile signor Ludd,

forse si sorprenderà nel ricevere questa mia letteruccia dal futuro; ma sentivo di scriverla, anzi gliela dovevo, per il semplice fatto che mi capita quasi tutti i giorni di pensare a Lei. Sì, certo, Lei fece quello che fece un sacco di anni fa, ma le assicuro che anche oggi, 235 anni dopo, è tuttora piuttosto famoso; per quanto, a parer mio, dovrebbe esserlo molto di più. Hanno fatto addirittura una canzone su di Lei, che dice: “Ned Ludd was an idiot boy”, ma per dire il contrario, che non fu stupido affatto quando le saltò in mente di spaccare il telaio su cui lavorava. Aveva ragione che le macchine ci avrebbero tolto il lavoro rendendo molti di noi disoccupati. Non tutte: le macchine automobili per esempio hanno creato i meccanici dove prima erano gli stallieri, i gommisti dove prima erano i maniscalchi, i distributori dove prima erano greppie e cambio della posta; ma queste qui, i gabellieri automatici, giudichi Lei. Vede la foto? Chi dei due è senza lavoro e per questo motivo è clandestino: il ragazzone che sorride a trentadue denti bianchi o quell’assurdo fusto totalmente privo di espressione?

E’ qui che penso a Lei, gentile signor Ludd, anzi “capitano Ludd”, come la chiamano gli inglesi con affetto divertito. Ogni volta che mi accosto a un parcheggio dove, specie nelle sere precoci dei mesi invernali, lo avvisto da lontano che mi fa segnali con la pila che poi tenterà di vendermi, per indicarmi che da dove mi trovo non si vede, ma un posto c’è in mezzo alle altre macchine, per parcheggiare. Entro piano, parcheggio e l’africano si accosta al finestrino e mi sorride come quello della fotografia per ricordarmi – smemorato io – che se mi fermo soltanto per mezz’ora non c’è bisogno che metta la moneta nel parcometro, basta il disco orario. Allora do a lui la moneta che ho già in mano in cambio di un accendino che, chissà perché, quando ti serve non si trova mai; e sono anche contento di dare un soldo a lui piuttosto che all’ingordo di ferro. Consegno l’euro, ritiro l’accendino e intanto, mentre scendo dico: “Vedi caro mio: tu sei gentile, simpatico e clandestino; lui è freddo, scostante e la sua bocca limata non fa mai un sorriso. Tu sei il vero posteggiatore, tu fai un servizio mentre lui è solo un agente fiscale che non dice nemmeno buon giorno e buona sera. Perché tu sei clandestino e lui ha il permesso di soggiorno?

Il motivo sarebbe che nessuno ti ha chiesto di fare quello che fai, e dunque non c’è motivo che tu sia qui, anzi, secondo la nuova legge commetti un reato con il solo fatto di essere qui a mandare segnali con la pila evitandomi giri inutili, sorridere, controllare l’auto mentre non ci sono, riscuotere il pedaggio e forse anche vendermi fazzolettini di carta. Ma non è questo svolgere un lavoro? Quel lavoro lo fa (male) il pupo di ferro al quale siamo abituati oppure rassegnati come segno del progresso. Tu sei gentile anche senza che nessuno te lo imponga come un obbligo professionale. Tu sei dunque molto professionale.

Ora, signor Ludd, dovremo constatare che i ragazzi senegalesi che presidiano i parcheggi non mostrano nessuna rage against the machine e mai si sognerebbero di fare come ha fatto lei che rompeva le macchine. Ridono e basta, perché sono ragazzi. Accettano lo stato delle cose e la compagnia del pupo, lui sì idiot boy, che oltretutto è il pupo di qualcuno (come è del resto la sorte dei pupi) il cui compito è solo quello di riscuotere soldi e sputare biglietti, e che oltretutto gli sa fatica un bel po’ di mettere giù l’incasso.

Ecco perché Le scrivo, gentile signor Ludd anzi capitano: per dirle che aveva ragione. Ci siamo abituati a sorridere alle macchine. Però, dico io: chi comanda le cose perché non riconosce il lavoro che effettivamente fate, vi mette un capello sulla testa con una P scritta sopra, toglie via il pupo e non vi offre l’occasione di redimervi dalla clandestinità e magari diventare italiani come Balotelli? “Questo sarebbe bello e romantico, ma amministrativamente non si può fare”, mi dice un amministratore con benevolo compatimento. “E allora?” rispondo. “Intanto immaginare le cose belle è già un po’ come respingere le brutte; e poi non siamo alla vigilia della terza rivoluzione industriale, quella che viene descritta come umana e leggera? Vedrai che prima o poi viene uno sprovveduto e lo fa”.

Capisce Capitano, cosa intendo dire? No, no, non chiedo che Lei venga qui, ci mancherebbe. Soltanto la ricordo perché chi legge veda qualcosa che non vede pur avendola ogni giorno sotto gli occhi. Con questo La saluto. Buon anno a Lei e anche ai ragazzoni dei parcheggi. Al pupo di ferro invece niente: spero anzi che passi un cattivo 2016 e che si arrugginisca tutto. Perché essere buoni con i cattivi vuol dire essere cattivi con i buoni.

                                                                                                                       

                                                                                                                                         Leonardo Badioli

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