Chi riesce ad oltrepassare l’Adriatico e chi no

Per due volte dal porto di Ancona Ahmad lo hanno rispedito indietro

 

 

dal libro “La frontiera” di Alessandro Leogrande

 

Il porto di Patrasso è sempre pieno di polizia. Per diversi mesi ha vissuto al di fuori dei suoi cancelli, in una sorta di tendopoli improvvisata con altre cinquecento persone, quasi tutte afghane.

“Di giorno mangi quello che capita, di sera col buio provi a saltare sui camion.”

Ci sono almeno due, tre navi al giorno che partono per l’Italia. I camion avanzano lentamente verso il molo e intorno si accalcano i ragazzi e i ragazzini della tendopoli che spiccano il volo, proprio come ha fatto Shorsh anni prima. L’obbiettivo è infilarsi sotto la pancia del camion, vicino alle ruote. O magari all’interno, nascosti tra le merci trasportate. Oppure, in alternativa, può essere lo stesso autista a nasconderti, se si è messo d’accordo con i trafficanti.

Fino a qualche anno fa, il grande salto era una sorta di gioco anarchico. Si pagava per arrivare fino a Patrasso, ma poi ognuno provava a saltare da solo. Era la fortuna a stabilire chi avrebbe oltrepassato l’Adriatico e chi no. Ma oggi è diverso. Con l’aumento della sorveglianza è aumentato paradossalmente anche il controllo dei trafficanti sui salti. “Sono stato uno degli ultimi a partire senza pagare”, mi dice mentre si accende una sigaretta. “Oggi, se cerchi di non pagare, i trafficanti ti daranno una lezione. Sono curdi o afghani, per lo più, ma è ovvio che lavorano con i greci”.

Vivere fuori dal porto, tra fabbriche abbandonate e case di cartone, insieme ad altri ragazzini della tua stessa età, vuol dire bramare l’imbarco ogni minuto della giornata. E’ quello il tuo pensiero fisso, tutto il resto non conta.

Per due volte Ahmad è riuscito ad arrivare in Italia, e per due volte dal porto di Ancona lo hanno rispedito indietro. In entrambi i casi lo hanno scoperto sul camion, gli autisti non sapevano che fosse a bordo. La prima volta il camion era ancora dentro la nave, la seconda aveva appena raggiunto il posto di controllo. Lo hanno beccato lì. Si era nascosto senza fiatare nel cassone, tra i cartoni di birra. Pensava di avercela fatta ma, quando sono saliti con le torce accese, lo hanno scoperto subito. Senza neanche chiedergli quanti anni avesse lo hanno rimandato indietro.

“Devi essere un rifugiato per capire quel momento. E’ una sensazione che non puoi spiegare a parole, la puoi solo sentire sulla tua pelle.Per provarla devi essere quel ragazzo nascosto da diciotto ore senza cibo e senza acqua, senza un bagno dove poter pisciare, con lo stress e la paura che non ti abbandonano mai…Mi hanno rimandato indietro con lo stesso traghetto con cui ero arrivato. Mi hanno chiuso in una cabina e, arrivato in Grecia, mi hanno consegnato alla polizia. Dopo qualche ora mi hanno lasciato andare.”

Nei giorni successivi al secondo fallimento, Ahmad tenta subito di ripartire. Capisce che in questo gioco non ci si può abbattere, non si può lasciarla vinta alla cattiva sorte. E allora prova a saltare di nuovo sotto i camion o dentro i cassoni a rimorchio. Tuttavia, deve attendere novanta giorni e novanta notti prima che arrivi il viaggio buono.

Questa volta parte con altri due ragazzi. Il salto va a buon fine, tutto sembra filare liscio. Il mare non è agitato. Nelle lunghe ore in cui il traghetto risale per l’Adriatico, cullato dalle onde che producono un moto sempre identico a se stesso, Ahmad e gli altri sentono solo il rumore del motore. Non sanno verso quale porto italiano sono diretti. Il grande salto è anche un salto nel vuoto, verso l’incognito. E la costa occidentale dell’Adriatico è solo la somma di nomi di città in cui fermarsi il meno possibile.

Sbarcato a terra, teme di essere scoperto anche questa volta. Si è sparsa la voce che in alcuni porti fanno passare i camion sotto enormi scanner per controllare il carico. Per quanto possano essere nascosti nel cassone tra le cassette di frutta, gli scatoloni di cartone o gli imballaggi di plastica, quando a bordo ci sono dei migranti appaiono sugli schermi come manichini inanimati. Vengono immediatamente scoperti e rispediti indietro.

Ma Ahmad sente che questa è la volta buona. Qualcosa gli dice che non sarà rimandato a Patrasso. E così è. Il camion non viene controllato a campione, non passa sotto nessuno scanner e i loro corpi non appaiono sullo schermo di nessun sorvegliante. Procede oltre il cancello d’ingresso, lascia la costa e si incammina lungo l’autostrada.

Sanno di essere in Italia, ma non hanno la minima idea della regione in cui sono sbarcati. Non sanno se sono al Nord o al Sud. Nel chiuso del cassone avvertono solo il ronzio delle ruote sulla strada così come fino a poche ore prima erano imbambolati dal frastuono dei motori dentro la stiva.

Anche in autostrada continuano a parlare a bassa voce, come se da un momento all’altro il portellone possa aprirsi e l’incantesimo del viaggio svanire. Passano alcune ore finché il camion non si ferma in un autogrill. Capiscono che il camionista è sceso, probabilmente è andato a mangiare. E allora, dopo una decina di minuti, decidono di saltare giù anche loro. E’ buio, al di là delle luci della tavola calda e delle pompe di benzina si distende una campagna anonima, inospitale, costeggiata di pochi alberi spelacchiati. Fa freddo.

Si allontano velocemente dalla stazione di servizio e iniziano a camminare lungo la corsia d’emergenza in fila indiana, uno dietro l’altro.

Seguono il senso di marcia, tenendosi sul bordo destro, attaccati al guardrail. Non hanno mai visto sfrecciare auto così veloci, che spostano ogni volta, al loro passaggio, una montagna d’aria.

Dopo qualche chilometro di cammino agile, scorgono un cartello con su scritto “Milano”: è il primo nome di città italiana che riconoscono. Fino ad allora le indicazioni non facevano altro che accumulare lettere e nomi sconosciuti. Leggono “Milano” e decidono di proseguire. Camminano per undici, dodici ore filate, senza curarsi delle macchine che sfrecciano come saette, senza badare al freddo o alla stanchezza. Gli svincoli che si susseguono e la campagna circostante che emana un odore acido sono una minuzia insignificante.

Alla fine vengono fermati da un’auto dei carabinieri che passa di lì per caso. I tre capiscono che è inutile scappare: vengono portati in centrale. Questa volta, quando scoprono che sono minori afghani, li assegnano a una casa famiglia. I due compagni di viaggio scappano nella notte. Ahmad no, rimane, e nelle settimane successive viene mandato a Roma.

Dei mesi passati a Patrasso ricorda soprattutto il razzismo che montava in città e il pericolo di essere vessati in ogni momento. “Alcuni gruppi uscivano di sera per picchiare gli stranieri. Certe notti ci facevano sapere che era meglio non mettere il naso fuori dalla tendopoli. Erano dei greci, soprattutto anziani, ad avvisarci. Ci dicevano anche di non andare in determinati posti. Due o tre volte ho visto giovani armati di bastoni e coltelli. Cercavano gli afghani. Volevano picchiarci senza motivo.”

La polizia non faceva niente. Anzi, una volta è perfino capitato che a un controllo i poliziotti slegassero un cane e lo aizzassero contro un diciottenne afghano sprovvisto di documenti. Il ragazzo ha provato a scappare, ma il cane gli ha afferrato la gamba, squarciandola.

Al pericolo delle aggressioni si aggiungono poi i consueti rischi del viaggio. I più anziani ricordano ancora quando, nel 2002, al porto di Brindisi trovarono sul fondo di un furgone due curdi morti. I cadaveri erano abbracciati tra loro, le bocche spalancate nella ricerca disperata di aria.

“Una volta,” si accende un’altra sigaretta, “sono stato al cimitero di Patrasso. Lì sono sepolti i migranti schiacciati dalle ruote dei camion. Molti rimangono senza nome, sulla tomba c’è solo la data di morte.”

 

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Veduta del porto di Ancona

One thought on “Saltare sui camion per attraversare la frontiera

  1. “Alla base di ogni viaggio c’è un fondo oscuro, una zona d’ombra che raramente viene rivelata, neanche a se stessi. Un groviglio di pulsioni e ferite segrete che spesso rimangono tali (…). Sono talmente appesantiti dalla violenza e dai traumi che hanno dovuto subire, nauseati dall’odore della morte che hanno avvicinato…”

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