Kakavishtayam. Un libro occidentale dei morti. 

Autore: Leonardo Badioli

Edizioni Il Mazzocchio

Disegni di Giorgio Lucarelli

 

Il giovane Hemingway presentò un suo manoscritto a quella che era la ninfa Egeria degli scrittori americani esordienti, a Parigi. “Di che si tratta?” lei gli chiese, “Vi sono delle osservazioni…” lui rispose. Ciò accese la miccia ad una di quelle sulfuree battute su cui poggia gran parte della superstite fama di Gertrude Stein: “le osservazioni non fanno letteratura”.

Naturalmente, così come per ogni proverbio o precetto ce n’è subito disponibile un altro uguale e contrario (per cui la Fortuna aiuta gli Audaci ma la Prudenza non è mai troppa), anche questa massima si può agevolmente rovesciare, senza scapito, magari con un correttivo “talvolta”. E qui ne abbiamo un’ottima riprova.

Non che questo Libro Occidentale dei Morti sia fatto solo di “osservazioni” e riflessioni ma – anche se esse sembrano predominare sui fatti – l’operetta sui generis morale sta, senz’altro, interamente dentro la Letteratura.  In virtù di che cosa? La domanda è talmente impegnativa che converrà sviarla su un’osservazione di Roland Barthes: là dove egli dice che “la letteratura è” – consiste in – “ciò che trasforma ogni esperienza in linguaggio sviato”.

In buoni esempi di codesto sviamento ci si imbatte a sorpresa, e spesso traumaticamente, ad ogni voltar di pagina. Come là dove si parla di “eclisse del corpo” e “carne che si è fatta verbo” ossia di cose soppiantate da parole. O dove incontriamo un “Icaro dei sotterranei” inghiottito “dalla notte che lui esplorava”. O quando ad un aspirante artista si consiglia di “andare in piazza una mattina” e cominciare “ a pitturare l’aria” per ottenere, mal che vada, “un assegno da invalido mentale”. O quando qualcuno osserva che più mezzi di comunicazione abbiamo, “meno abbiamo cose da dire, e meno abbiamo voglia di contatto vero”. O come là dove, nell’allegorico pollaio di Squartagallo, le galline all’ingrasso vengono persuase che “mangiare è un lavoro produttivo” come un altro. O dove un “politico”, consapevole che occorre rimediare agli errori del passato, si chiede con protervo candore: “E chi può farlo meglio di colui che li ha commessi?”

Da questi sparsi esilaranti esempi è evidente che Leonardo Badioli percorre gli impervi sentieri dell’allegoria e della satira. Fare allegoria è come giocare su due tavoli, ma l’ardua sfida è che bisogna vincere ad entrambi: se non si perde l’intera posta. A conti fatti, l’Autore riesce a non franare in ovvii o stiracchiati parallelismi e a tenere saldamente uniti ma distinti i due piani del discorso, le due cornici di riferimento.

Fare satira, in Letteratura, comporta doppiare la vignetta o l’articolo di fondo – cose che hanno altrove la loro degna sede – per approdare a qualcosa che sta al di là del contingente, dell’immediato, a una mediata meta-attualità: attuare cioè quello scarto che al valore facciale dell’osservazione aggiunge il plus dell’invenzione. E qui Leonardo ha quasi sempre, si può dire, la mano libera e felice.

Narrativamente, si procede per epifanie, per frammenti che – riuscendo a combaciare – risultano (al di là del bozzetto e grazie a una notevole abilità affabulatoria ) in episodi e personaggi memorabili. Protagonista del romanzetto meta filosofico è un Giacomo rievocato come “il Maestro” e metempsicosato in una saputa gallina.

Ci si domanda quanto l’aver conosciuto di persona il modello da cui trae ispirazione questo personaggio – qui autore di sapidi disegni – accresca il fascino della sua rievocazione; ma io credo che anche chi non l’abbia presente sia in grado di apprezzarne il ritratto (comunque sviato), come pure gli altri ingredienti di questo vivissimo Libro dei Morti.

                                                                                                                            Pier Francesco Paolini

 

Giorgio Lucarelli ha consegnato il compito non finito una mattina di più di vent’anni fa, il 9 ottobre 1989. E’ stato partecipe costante e osservatore divertito dell’anima della città di Senigallia, e ne ha tradotto l’espressione in un diario figurativo affettuoso quanto inesorabile, che rappresenta il ritratto più intimo e vero di una generazione. E’ lui per me il Maestro del racconto: intero credo, o almeno la parte che mi spetta, caso mai qualcun altro possedesse di lui qualche propaggine, un quaderno, un messaggio: sarà così senz’altro, e non ingelosisco. Soltanto per uno scrupolo gli ho cambiato nome, in modo che nessuno pensi a un abuso volontario. Tutto il resto è salito dal cuore, che ha sempre qualcosa da dire. Ma poi (Manzoni mi perdoni) cosa ne sa il cuore? Appena un poco di quello che è accaduto. (Leo)

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