DAVID “ZANZA” ANZALONE E’ ANDATO IN SCENA DAL 25 AL 30 OTTOBRE AL SAN BABILA DI MILANO CON LO SPETTACOLO “ARLECCHINO SERVO DI DUE PADRONI”

“Una sfida dell’ingenuità amorosa tutto quello che faccio”

 

una sfida dell'ingenuità amorosa tutto quello che faccio

 

La Cantina Rablé, compagnia d’arte capitanata da David “Zanza” Anzalone, ha fatto conoscere il teatro Made in Marche partendo dal cosiddetto “salotto de Milàn”.

Lo spettacolo “Arlecchino Servitore di Due Padroni”,  – coprodotto dal Centro Teatrale Senigalliese e dal Comune di Senigallia – dopo aver debuttato con successo al Teatro La Fenice, ha avuto l’onore di aprire la stagione di prosa 2016/17 del Teatro San Babila Milano. Una settimana di repliche, dal 25 ottobre  al 30, in uno dei teatri più prestigiosi d’Italia.

Zanza e la Cantina Rablé continueranno il loro tour in tutta Italia ma saranno anche protagonisti nei teatri delle Marche grazie alla collaborazione nata fra Centro Teatrale Senigalliese, AMAT e Comuni marchigiani.

Intanto, in un’ottica di legame col territorio e diffusione culturale dal basso, è ripartita a Senigallia la Scuola di Teatro Popolare.

Da Ottobre si possono effettuare lezioni di prova in tutti i corsi presenti e per tutte le età. Quest’anno con  nuovi collaboratori e molte novità.

Per conoscere tutti i  progetti artistici e le  proposte formative:

www.centroteatralesenigalliese.it –  info@centroteatralesenigalliese.it –  3312364307.

 

(INTERVISTA IN ESCLUSIVA)

                             Il teatro di Zanza atto secondo

 

è una sfida all'ingenuità amorosa tutto quello che faccio

 

Cognome: Anzalone. Nome: David. Soprannome: Zanza. Nato a Senigallia il 25 maggio 1976 e ivi residente. Professione: handicappato. Segni particolari: nessuno. E ride sull’anta a destra dalla carta d’identità. Se poi volete saperne di più (ma lui è conosciuto abbastanza perché ne facciate a meno) date un’occhiata al sito www.zanza.it. Ride anche da lì: “Ma perché un handicappato si mette a fare il comico?” “E che ne so io? Perché lo domandate a me?”.

Noi però cominciamo dal secondo atto, ossia da quando non reciti più te stesso in quanto handicappato, ma reciti e basta. 

“Dall’Arlecchino servo di due padroni, allora. Quel ruolo era perfetto per me, perché Arlecchino è lui stesso un recitante e dunque io ero doppiamente me stesso. C’è stata una gran risposta alla Fenice, a febbraio di quest’anno, due sere con la sala tutta piena”.

Quello però era un personaggio ponte, che quasi l’handicap gli giovava.

“È vero, ne sono consapevole; infatti l’ho voluto io quel personaggio. Pensa un po’: una commedia di Goldoni dove Carlo Boso ha recitato quattrocento volte e mai più replicato, rispolverata per me e per la mia compagnia -la Cantinab Rablé- da uno che è nato al Piccolo Teatro di Milano dove re era Strehler. È stato come per un ragazzo di strada giocare con Maradona. 

Dunque mai più uno Zanza che recita Zanza? 

Sì e no. L’handicap non è un’identità. Non deve esserlo. È pur vero che, come insegnano i comici della commedia dell’arte, non si esce mai da se stessi  – questa era la grande accusa che, a partire dagli anni sessanta, il teatro contemporaneo ha mosso alla commedia dell’arte, salvo poi attingere a piene mani dall’identità attore-personaggio – . Si tratta in ogni modo di un rapporto mediato tra ciò che è l’attore e la figura rappresentata. In termini più ampi vuol dire uscire da un’ottica individualista del teatro per abbracciarne una collettiva. Il teatro diventa uno strumento, crea spazi per una politica dell’esperienza e fa rinascere valori come la differenza, il rispetto, l’intimo dei personaggi, e li mette al centro dell’azione. Uscire dal mondo liquido di Bauman e tornare alle radici della rappresentazione.

Ma questo Bauman non so se lo prevede.      

Non importa. Io non sono Bauman. Io sono quello sprovveduto che non sa che le cose non si possono fare e quindi le fa. Chi si aspettava mai che nelle Marche potesse nascere e crescere una pianta come il Centro Teatrale Senigalliese, capace in soli quattro-cinque anni di dare così tanti frutti! Basti questo episodio per capire le difficoltà di impiantare una cosa nuova: arriva l’uomo della Siae e ci fa i complimenti: “Bravi che ce l’avete fatta anche quest’anno”.  Già: anche quest’anno ce l’abbiamo fatta. Il sito del nostro centro è www.centroteatralesenigalliese.it .

Parlavi di esperienza umana. Ci sono donne che rimproverano noi maschi di essere passivi verso il femminicidio. Ma non è una brutta idea di amore quella che ispira l’orrore assassino? Curare l’amore non sarebbe una forma di prevenzione? Adesso si vedono tanti lucchetti e tanti cuori incatenati. Il tuo teatro non include un simile programma?

Senti, io dovevo essere morto appena nato. Poi è stata una tigna voler vivere, un amore verso me stesso e attraverso me verso l’altro. È una sfida dell’ingenuità amorosa tutto quello che faccio. Poi non cambiamo il mondo: diffondiamo un clima. Nel nostro centro la maggioranza è femminile; per quanto ci riguarda come maschi non c’è bisogno di fare i femministi: basterebbe rendersi conto del tanto maschilismo che ci portiamo addosso.

Nel tuo blog si legge: “Ci chiamano diversamente abili, che tu stai tutta la vita a chiederti: ma a che cosa sarò abile io? Adesso pensi di averlo trovato?

Eh, il teatro, diceva Molière, è fatto per chi non sa fare nient’altro. Funziona così, che ogni via ha passaggi inevitabili e altri inaspettati. Io mi ritengo un attore comico vecchio stampo, con radici in Plauto, Molière, Giambattista Andreini, che è una specie di Shakespeare poco conosciuto. E questa antichità ci insegna che il teatro è una magagna, una necessità che diventa virtù, e poi cultura, lavoro, una quantità di cose…

Può esistere dunque uno Zanza drammatico?   

Forse vuoi dire tragico, perché il dramma è tutto. Allora dico di sì, perché quello che ho fatto io muove dalla tragedia. La comicità è l’attività artistica che serve a esorcizzare le paure. Ossia la tragedia. Perché la comicità finisce con Eduardo, o al masismo con Troisi? Perché si è usciti dall’ottica della paura, di quella vera, radicale, esistenziale. La comicità è una potenza tragica. Il comico parte dalla tragedia – meglio se collettiva – e la risolve in risa.

Beckett per esempio ne è una sintesi?

Non so: mi trovo a disagio con Didi e Gogo: qualcosa di volutamente provocatorio e troppo metafisico per me. Sono nell’ottica del cabaret: Café Voltaire, Karl Valentin al tramonto, perché lì c’è qualcosa di diretto, di sfrontato, come sono io magari per richiamo. Ricordo che artisti come Paolo Rossi e Troisi hanno cominciato col cabaret. Chi fa cabaret bene – e io lo facevo benissimo – acquista competenze del rapporto tra sé e pubblico. La commedia è complessa, piena, densa, perdurante e costosa per chi la fa. Una volta César Brie disse che “l’attore è colui che brucia l’ego in scena e l’odore della bruciatura diventa indimenticabile”.

E tu ti sei bruciato abbastanza?

Ho quarant’anni e ancora non sono ai bilanci. Qualcosa da bruciare ancora c’è. Ma se penso –  non vorrei fare torto a nessuno – se penso a come sono stato accolto in Italia mi sento di dire che siamo davvero molto indietro. Quanto pietismo, quanto patetico ancora! Baricco, parlando con un mio carissimo amico, ha detto che se eravamo in America a uno come me gli avrebbero dato una trasmissione tv alle otto di sera. Io però voglio fare teatro. Quello che ho fatto fino a qui l’ho conquistato centimetro per centimetro; e adesso so che il commediante deve sempre avere un’accortezza commerciale. In questo contesto io sono un po’ troppo avanguardia. Ma è nell’incontro che si può creare un altro mondo, o almeno un diverso modo di vedere le cose. Questo si dovrà vedere anche dal vero. Cioè dalla platea di un teatro.

 

                                                                                                                                    Leonardo Badioli

 

 

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