il gelato prima da noi che nel resto del mondo

       

Ostra Vetere: Torna alla luce l’antica “neviera” dell’ospedale

 I lavori di ripavimentazione della piazza Grande (piazza don Minzoni, di fronte al palazzo municipale) hanno fatto tornare alla luce l’antica “neviera“. Quando ancora non erano stati inventati i frigoriferi (lo saranno solo negli anni ’20 del Novecento e a quell’epoca si chiamavano alla francese “frigidaire”, dialettalizzato in “frigilè”), si faceva a meno del ghiaccio. Il ghiaccio lo produceva la natura d’inverno nei momenti più freddi dell’anno, ma non aveva alcun uso pratico, anzi, provocava solo svantaggi. Fin quando non accadde qualcosa all’epoca delle crociate. Anzi, all’epoca della prima crociata, nel 1098, quando anche dalle nostre parti si mossero feudatari e cavalieri verso il Santo Sepolcro, caduto in mano dei mussulmani. Dopo lunghi tentennamenti, la cristianità occidentale decise di intraprendere una spedizione militare per liberare i luoghi santi e così in molti partirono dall’Europa verso l’Oriente. C’era anche Boemondo d’Altavilla, un normanno francese signore di Taranto e con lui andò anche un contingente anconetano su una nave dei Tommasi, guidati da un altro normanno: Leonardo Bonarelli.

L’impresa militare ebbe successo, ma non per Leonardo, che cadde eroicamente sotto le mura di Antiochia durante l’assedio, prima della conquista di Gerusalemme. Ma il suo nome glorioso venne ricordato a lungo: Leonardo è parola composta di origine germanica, come erano i normanni, e la sua vera denominazione era quindi Lionheart, che significava “Cuor di Leone”. Un nome che divenne presto comunissimo fra tutti i crociati, tanto che anche più di un secolo dopo lo stesso re d’Inghilterra, Riccardo, fattosi crociato, aggiunse al suo nome l’appellativo di “Cuor di Leone”, Lionheart, appunto. Ma durante la crociata aveva fatto in tempo, lui, Leonardo Bonarelli, e i suoi familiari che l’avevano seguito, a scoprire una segreto saraceno: l’uso del ghiaccio delle alte montagne del Tauro, unito al celebre melone giallo di Supunga (la Shibbergam odierna presso il gran deserto in cui viveva il Grande vecchio della Montagna, capo della tribù degli Hashishins che usavano la droga hashish per diventare ancora più feroci sanguinari, da cui il nome di assassini) e usare un ben altro prodotto naturale che lì si trovava, dove più tardi lo trovò anche il veneziano Marco Polo di cui ne parla nel suo libro “Il Milione”: il benefico melone giallo di Supunga, da cui ricavare il nettare d’Oriente, il sorbetto.

I Bonarelli ne furono entusiasti e, diventati proprietari di navi e insediato un fondaco commerciale a San Giovanni d’Acri in Terrasanta, importarono la novità nel loro feudo di Bompiano sopra Torrette di Ancona. E chiamarono il loro castello proprio con lo stesso nome dalla località d’Oriente da cui avevano importato i meloni gialli, per una intuibile traslitterazione fonetica da “u” ad “a”, il raddoppio consonantico “p” e l’inversione tipicamente indoeuropea da “g” a “c”, chiamando il castello Supunga-Sa_ppa_n’_ga, Sappanico. Come alla sottostante contrada diedero nome di “Candia“, che era il nome medievale dell’isola greca di Creta con cui commerciavano. E anche adesso, in cima alla più alta collina di Ancona, esiste tuttora il castello di Sappanico, in cui abitano gli ultimi eredi dei conti Bonarelli, che avevano palazzo in città come un fortilizio, costruito sopra le mura dell’antico anfiteatro romano che conserva ancora l’Arco Bonarelli. Ma i Bonarelli avevano anche tanti altri possedimenti nelle alte Marche, come ci testimonia un codice vescovile senigalliese che ancora ricorda come, a metà del Trecento, un Galeano Bonarelli aveva possedimenti perfino a Montenovo, verso la contrada rurale di San Vito. Il nome, Galeano, ricorda ancora i trascorsi familiari e l’attività di armatori di “galee” con le quali commerciavano con l’Oriente, da cui avevano imparato il segreto del gelato sorbetto.

Un segreto che conservarono gelosamente e del quale traevano gran nome: lo apprezzò molto anche la regina d’Ungheria che, giunta ad Ancona in visita alla Santa Casa di Loreto, venne ospitata proprio nel palazzo Bonarelli. E riportò in Ungheria il “segreto” del gelato dei Bonarelli che anche nei Balcani ebbe un grande successo, conservando il nome degli scopritori anconetani.
Caduto il muro di Berlino e crollato il regime comunista, qualche anno fa il nuovo clima imprenditoriale spinse gli ungheresi a realizzare una grande azienda per la fabbricazione industriale dei gelati di frutta, cui diedero nome non del melone com’era in antico ma, inseguendo la moda innovatrice esterofila, di un altro frutto esotico: il kiwi. Proprio così, la fabbrica ungherese di gelati di frutta si chiama “Kiwi” e inalbera, nel suo marchio, proprio la corona reale delle regina d’Ungheria. E fra i suoi prodotti in catalogo offre quello più rinomato: il gelato chiamato “Bonarello”. Chi conosce appena l’ungherese sa che è una lingua complicata e illeggibile per noi, piena di rauche consonanti doppie e impronunciabili. Fra i tanti prodotti dai nomi incomprensibili e contorti, ce n’è uno solo comprensibilissimo per noi italiani: “Bonarello”, dal nome della nobile famiglia anconetana che l’aveva fatto conoscere alla regina d’Ungheria tanti secoli prima. Sono passati cinquecento anni e ancora il gelato offerto dai Bonarelli d’Ancona alla regina d’Ungheria viene tuttora ricordato in terra magiara. Ovvio che Galeano lo abbia fatto conoscere anche a Montenovo, dove aveva vasti possedimenti. E ha fatto conoscere anche il modo con il quale si poteva preparare il gelato.

I Bonarelli l’avevano appresso dagli arabi mussulmani in Terrasanta e l’avevano poi realizzato nel loro castello: in cima all’erta collina su cui sorge Sappanico, nella piazzetta interna a 311 metri di altitudine, il punto più alto del territorio di Ancona, avevano costruito un pozzo, che non poteva servire per cavarvi acqua – tant’è che non era permeabile alle falde freatiche ma reso impermeabile con la calce idraulica – ma per conservare la neve che, ad Ancona, cade d’inverno solo, e non sempre, in cima al cucuzzolo di Sappanico. Sul fondo del pozzo impermeabile mettevano della paglia come isolante, poi vi facevano precipitare la neve, comprimendola per bene con pesi per farla diventare ghiaccio compatto e proteggendolo poi con altra paglia e coperte per conservarlo a lungo. Nell’archivio privato di casa Bonarelli si conservano ancora le scritture contabili di quando la contessa Bonarelli, Donna Anna, a metà del Seicento vendeva il preziosissimo ghiaccio d’estate al caffettiere del Corso che andava a Sappanico con la “cacciatora” a caricare i “panetti” di ghiaccio per fare bevande gelate per la clientela. E guadagnava anche bene, mentre famoso è rimasto il gelato di Sappanico, tanto che qualche anno fa la Pro Loco di quella frazione ha istituito proprio la “Sagra del gelato di Sappanico” a mezzagosto.

Ma i Bonarelli, che erano crociati, conti, capitani di ventura, dotti letterati, poeti e abili amministratori, addirittura Senatori romani sotto lo Stato Pontificio e investiti del feudo della Ravegnana a Torre San Marco dai duchi d’Urbino, erano anche valenti medici e avevano scoperto ben presto l’uso terapeutico del ghiaccio in medicina. Il ghiaccio dei Bonarelli non serviva solo ai caffettieri, ma anche agli ospedali. Ed è così che l’uso del ghiaccio si è diffuso anche a Montenovo, grazie a Galeano Bonarelli e ai suoi eredi, che aveva qui i suoi possedimenti a metà del Trecento, proprio mentre il libero Comune si dotava del primo Ospedale di Santa Caterina: risale al 1342 l’ospedale di Santa Caterina di Montenovo ed anche questo è citato negli antichissimi codici vescovili senigalliesi.

 

il gelato prima da noi che nel resto del mondo
scena dal film ” lettere di una novizia” ,1960, fondo Lattuada

E allo stesso modo in cui a Sappanico avevano costruito la “neviera” per conservare il ghiaccio ricavato dalla neve pressata, così anche sul cucuzzolo di Montenovo, nel punto più alto sulla piazza del Comune, venne costruito il pozzo-neviera, intonacato con calce idraulica per renderlo impermeabile e ora ritrovato, a servizio degli ospedali montenovesi. Degli “ospedali”, abbiamo scritto, e non dell’ “ospedale”, perché a Montenovo gli ospedali sono stati quattro: quello di Santa Caterina nel Trecento, quello di San Rocco al Borgo nel Cinquecento, quello delle “zitelle” presso la pianella del Perugino nel Seicento, e quello sul Girone, dedicato allo scultore Antonio Canova nell’Ottocento. Non c’è più, purtroppo, alcun Ospedale a Montenovo, a causa dell’imprevidenza di moderni amministratori, ma ora torna alla luce la “neviera” degli ospedali a ricordare a noi tutti ciò che disgraziatamente è andato perduto.

La storia di Leonardo Bonarelli e del sorbetto di Supunga, del gelato per la regina d’Ungheria e del caffettiere del Corso di Ancona che acquistava il ghiaccio della neviera di Donna Anna Bonarelli è contenuta nel 94.mo volume edito dal Centro di Cultura Popolare nel 2007, scritto da Alberto Fiorani e intitolato “La coppa di Donna Anna” e la “coppa” era quella, famosa, in cui si gustava il “sorbetto” dei Bonarelli, i primi importatori del gelato dall’Oriente, non avendo alcun fondamento la diceria che sarebbe stata la regina di Francia, una Medici di Toscana, a inventare il gelato per il quale divenne famosa Parigi fino alla Belle Epoque: il gelato è molto più antico e furono i Bonarelli a farlo conoscere all’Italia e al mondo: fu proprio uno dei Bonarelli, Prospero, letterato e poeta, amico della regina Medici di Francia e del celebre cardinale Mazzarino con il quale era in confidente corrispondenza, a svelarne il segreto di cui la regina Medici si fece vanto, un vanto italiano e non certo francese. Non è forse vero che i gelatai italiani sono dappertutto nel mondo, come i pizzaioli napoletani? Merito dei Bonarelli.
 E merito della riscoperta della neviera di Montenovo appena ritrovata.

 

( www.valmisa.com )

 

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