Le Unità Speciali di Continuità assistenziale sono formate da medici e il loro scopo è quello di assistere a domicilio i pazienti affetti da Covid-19 che non hanno bisogno di un ricovero. In questo modo vengono alleggeriti gli ospedali, mentre i medici di famiglia possono continuare a seguire i pazienti ordinari. La loro presenza  dissipa ogni possibile sindrome da abbandono.

di Leonardo Badioli

Se invece di usare così spesso gli acronimi adottassimo il costume di declinare il nome per intero, USCA per noi sarebbe quello che in effetti è: non un nomignolo buffo, ma l’Unità Speciale di Continuità Assistenziale.

Perché a volte abbiamo bisogno delle parole per dire anche le cose note. Chi di noi, avendo segnalato al proprio medico di base il timore di avere contratto il coronavirus, si è visto arrivare a domicilio un giovane medico e un infermiere vestiti da marziani con la valigetta dei DPI, (i Dispositivi di Protezione Individuale, per esteso) ha già sperimentato questa forma di assistenza  che costituisce, appunto, un tratto di continuità nelle cure che vengono prestate a domicilio. 

Si vestono di un camice impenetrabile fuori dalla porta, entrano, controllano i sintomi, fanno il tampone, fanno anche l’ecografia ai polmoni, misurano la saturazione dell’ossigeno, prelevano il sangue per le analisi,  tutto con la professionalità e gentilezza che sono proprie di chi crede in quello che fa e nel valore della medicina sociale. E anche quando non c’è bisogno del loro intervento diretto, non c’è giorno, anche festivo, dalle 8:00 alle 20:00, che non chiamino per telefono per controllare  il nostro stato di salute. La loro presenza  dissipa ogni possibile sindrome da abbandono. 

Dove sono presenti. Perché una USCA non si impronta in pochi giorni. Quella di Senigallia è, almeno nelle Marche se non in Italia, la prima Unità Speciale di Continuità Assistenziale resa attiva e funzionante già dal 1 aprile di quest’anno, nel pieno della prima ondata pandemica, come doveva essere. Ma niente di improvvisato: i suoi operatori hanno seguito specifici corsi di formazione tenuti da una équipe di Medici Senza Frontiere; oltre ai Dispositivi di Protezione Individuale gli aspiranti hanno appreso l’uso di piccole tecnologie come l’eco-toracica, l’elettrocardiogramma, lo stesso uso del tampone per il monitoraggio a domicilio della persona indiziata o accertata di Covid. 

I tempi erano questi. Il 9 marzo 2020 un Decreto Legge del Presidente Mattarella dispone il potenziamento del Servizio Sanitario Nazionale in relazione all’emergenza Covid-19, ci mette sopra 61 milioni e stabilisce che siano le Regioni a istituire le USCA, cosa che la Regione Marche fa con delibera del 27 marzo. Senigallia avvia la sua USCA nei tempi prescritti, il 1 aprile. Adesso ha otto mesi di esperienza. Altrove?  Il Decreto-Legge prevedeva almeno 1200 Unità Speciali in tutta Italia, una ogni cinquantamila abitanti: ci sono regioni in cui ce n’è una ogni 180 mila abitanti. Difficile anche reperire i dati: non li ha il Ministero della Salute e non li ha neanche l’AGENAS, che è l’Agenzia Governativa per i Servizi Sanitari Regionali. I dati restano in mano alle singole Regioni. L’ultimo aggiornamento risale  a fine luglio quando, secondo l’ALTEMS dell’Università Cattolica (Altems vuol dire Alta Scuola di Economia e Management dei Sistemi Sanitari ALTEMS), le squadre domiciliari coprivano il 49% della popolazione nazionale. Tre delle regioni che più stanno soffrendo la seconda ondata, in estate avevano un tasso di copertura piuttosto basso: Il Piemonte 41%, Lombardia 35%, Campania aveva istituito 15% delle unità necessarie- (Linkiesta.itDove sono finite le unità Speciali di Comunità Assistenziale?, 18 novembre 2020). 

Ma non è per il confronto sul negativo che il dottor Fabrizio Volpini, sente come “un onore e un piacere” il fatto di essere coordinatore della prima USCA operativa delle Marche e una delle prime in Italia; perché qui non solo la cura a domicilio ha guadagnato la fiducia e l’apprezzamento delle persone alle quali l’unità Speciale è rivolta: è grazie a questa infatti che il Pronto Soccorso e il reparto Covid dell’Ospedale non sono ora sovraffollati come altri nella cui area l’USCA non c’è, con vantaggio dei pazienti, apertura di nuove professionalità e costi contenuti. Tocca sempre alle Unità Speciali, anche consultando i colleghi pneumologi, decidere se il paziente ha necessità di essere ricoverato, e ancora alle Unità Speciali seguire le persone che, dimesse dall’Ospedale, sostano per un periodo di restituzione presso il Covid Hotel.

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