RACCONTI DI UN ALTRO MONDO…

“Fallo pe’ fii che more de fame!”

Sullo sfondo delle nostre marine compaiono alcune figure di donne. Le abbiamo evocate un mio amico ed io da ricordi lontani.

Il dott. Luigi Vecchietti, nel primo dopoguerra, dirigeva a Portocivitanova la Cassa di Risparmio e nelle sere libere amava osservare la vita degli uomini di mare lungo la spiaggia.

Ci fu un periodo che l’Adriatico dava poco pesce e questa “magra” costringeva i pescatori a partire anche quando c’era burrasca. Così in quei pomeriggi le donne si portavano sulla riva dove i mariti, presso le barche, attendevano dal cielo nuvoloso una risposta rassicurante per il “varo”.

Il varo era la spinta in acqua della barca. Ma nell’incertezza del momento queste donne sentivano il compito di incitare gli uomini alla partenza, come se la responsabilità di una possibile disgrazia non dovesse gravare sui mariti soltanto. Quando il primo pescatore s’era deciso a spingere la sua barca tra le onde, le mogli degli altri gridavano: “vara, vara!” “..che il tuo amico ha varato” “Fallo pe’ fii che more de fame!”

Il mio amico era preso da questi ricordi e si rammaricava che io non avessi letto “I pescatori d’Islanda”, un famoso romanzo francese che mi avrebbe fatto entrare in quella atmosfera e capire la fatica della gente di mare.

Donne picene dal temperamento forte, capaci di molto slancio, che trasmettevano fiducia anche al direttore della banca, quando correvano a chiedere i rinnovi dei prestiti e il rinvio delle rate.

 

le donne dei ricordi miei

 

Altre donne appartengono al patrimonio dei ricordi miei.

Ida e Mabilia erano due donnette di Numana (abitavano, se ben ricordo, sulla ripida stradina detta “costarella”) che venivano a piedi a vendere il pesce a Camerino, il mio paese.

Il mattino presto, due o tre giorni la settimana, caricavano le ceste su un carrettoni che spingevano per quattro chilometri di strada polverosa. A piedi scalzi, se il tempo era buono, e la polvere era come un tappeto.

Quando avevano poco pesce, ne portavano una cesta in testa, facendo a meno del carrettino; così il ritorno era più spedito. Anche la bilancia veniva sempre lasciata nella prima case del paese.

Arrivate fuori porta, gridavano al pesce e in un paio di ore vendevano tutto perché c’erano le poste fisse: le trattorie, il farmacista, qualche benestante con disturbi di fegato…

Alle dieci, per mangiare, si sedevano nella cantina, immersa nella penombra, senza la presenza chiassosa degli uomini che ci venivano alla sera. Poi, quasi correndo, a fitti passati, tornavano al loro paese di mare.

Quand’erano fortunate incontravano il “pollaiolo” che, nel giro quotidiano in campagna, le caricava sul carretto per qualche tratto, se il cavallo non era troppo stanco.

Donne piccolezze, grintose e gentili ad un tempo con i clienti del paese. Direi non diverse, per instancabili, per temperamento, da quelle donne di Portocivitanova.

 

“Giovanotti che fate l’amore compatite la povera Bruna”

Ho pure un’altra donna da rivedere, sebbene contadina, sullo sfondo del mare.

Col broccio tirato da buoi veniva a prenderci in paese, una o due volte all’estate, per portarci a Portonovo.

Viaggio che iniziava all’alba, per evitare le code calde, e durava due ore in un percorso che vedeva la discesa fino a S. Germano, la salita della “gradina” fino al Poggio e poi ancora una accidentata discesa verso la spiaggia sassosa, in un sentiero che pareva il letto d’un torrente.

Io, che avevo otto, nove anni, mia madre, quattro o cinque sue amiche sedevamo su tavole appoggiate alle sponde del biroccio. Sotto le tavole le pentole col pranzo, avvolte in ampi fazzoletti.

La contadina che ci portava, quando non camminava davanti alle bestie, sedeva sul timone e se aveva qualcosa che mi colpiva, era la sua presenza muta, un eterno silenzio…a parte le parole che di quando in quando gridava ai buoi per meglio guidarli. Non le toccavano gli allegri discorsi, le risate, i canti delle donne (che forse la infastidivano)…”Giovanotti che fate l’amore compatite la povera Bruna”

Niente confidenza con le donne del paese: un altro mondo. Operaie alle fisarmoniche di Scandalli o all’industria dei berretti, smaliziate, un po’ sfacciate.

Arrivati alla spiaggia, carro buoi e contadina sparivano, nascosti in qualche angolo d’ombra, tra canne e pini.

Solo nell’ora più calda mi sembrava di vedere quella donna di campagna bagnarsi i piedi nell’acqua di mare, in un punto lontano da noi.

 

                                                                                                                                              di Elvio Grossi

 

le donne dei ricordi miei

 

 

 

Elvio fra dipinti e racconti

di Gastone Mosci

I dipinti di piccolo formato di Elvio Grossi scandiscono il ritmo degli appuntamenti, sono luoghi della memoria e dell’immaginazione sensibile, avvisi d’umore e d’amicizia, sono segnali della vita. I racconti brevi sono invece ritagli d’esperienze, “sforbiciature”, come gli acquarellini di Ciarrocchi, giochi di humour, situazioni dello storico. Il tempo sembra immobile per Elvio, come per il chierico proteso alla ricerca del senso dell’esistenza, che è rassegna di volti, parola che aiuta a dare sonorità al pensiero, elenco di fatti. Tutto è corporeo e tutto si svolge nella dimensione del frammento, di ciò che è stato e di quanto deve avvenire.

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