Una tenera capra in mezzo alle divinità

 

Amaltea, la balia di Zeus

 

le fave dei morti

 

Io sono Amaltea, la ninfa, la balia, la capra. Il mio nome vi è noto perché fui nutrice del piccolo Zeus quando Crono suo padre voleva mangiarlo. Voi certo vorrete sapere del gruppo di stelle che è il Capricorno, alle quali la storia è legata; va bene, adesso vi dico; però non chiedetemi più se sia io quella capra codata di pesce che lo raffigura.

Che c’entra la coda di pesce io poi vi dirò. Se comunque Egipane, il figlio che ebbi dal grande puzzone (tal padre tal figlio) la vuole per sé, glielo cedo volentieri: mi è già dedicata una bellissima stella nell’Auriga ed è tanto per una divinità minore quale sono io. Tanto più che non ho mai avuto né il carattere né la bellezza delle mie sorelle.

Le conoscete, sì, le mie sorelle? Una è Nemesi, amica dei platani, che chiamano anche Adrastea, che vuol dire che a lei non si sfugge. Ha per amiche le Ore e passa con loro quasi tutto il giorno. Anch’esse sono molto belle, Eunomia la Buona Legge, Irene la Pace e Diche la Giustizia. Per carattere Nemesi preferisce quest’ultima, e se non sono insieme si cercano continuamente.

L’altra sorella è Io: è bellissima e non per scherno, ma per ammirazione delle sue forme libere la chiamiamo Violetta, che in fondo è un nome da mucca.

Vi dicevo del piccolo Zeus e di quei giorni memorabili. Era Crono allora a comandare ogni cosa del cielo e della terra, e ogni anno sua moglie Rea gli partoriva un figlio. Ma non appena la puerpera glielo mostrava, lui afferrava brutalmente il neonato e lo ingoiava intero. Faceva così perché l’oracolo gli aveva predetto che uno dei suoi figli l’avrebbe cacciato dal trono: allora per stare più sicuro li trangugiava tutti appena nati. In questo modo, però, finiva per distruggere ogni cosa che lui stesso aveva contribuito a creare. Per mantenere il controllo degli avvenimenti cercava di farne succedere il meno possibile, anzi non voleva che succedesse proprio niente oltre al naturale succedersi delle stagioni, niente che rendesse una primavera diversa dall’altra, un anno diverso dal precedente. Era pronto a bloccare tutto purché gli restasse ben appiccicato il sedere al seggio del comando.

Così furono ingoiati Estia, Demetra, Era, Ade e Poseidone, man mano che la madre li metteva al mondo. Il sesto figlio Rea andò a partorirlo lontano, sperando in questo modo di sottrarlo alle fauci maritali. Andò nel paese dove i corpi non proiettano ombra. Non so bene dove sia questo paese, ma non è l’Arcadia dove dicono alcuni che la sanno lunga; io penso che sia l’Africa, perché è lì che il sole spiomba al centro del cielo e i corpi, irraggiati dall’alto, calpestano la propria ombra. E anche per un altro motivo sono convinta che quel paese è l’Africa: da lì noi cretesi apprendemmo ad allevare le api. Veniva giù dal fiume… ma faccio confusione. Cosa c’entrano le api poi vi dirò.

Ma intanto – dov’ero rimasta? – vi stavo raccontando di Rea che andò a partorire il piccolo Zeus nel paese dove i corpi non proiettano ombra. Appena nato, Rea affidò il bimbo alle acque del fiume e alla Madre Terra e tornò prestamente alla corte del suo distruttivo marito con qualcosa avvolta nelle fasce: una pietra, esattamente. Quello, come vide il fagotto, si comportò secondo abitudine: lo afferrò, spalancò le fauci e lo ingoiò così com’era, con le fasce e tutto. Blub. Chissà se l’avrà trovato più indigesto degli altri: l’importante era che non sospettasse la sostituzione.

Quando poi Madre Terra ci consegnò il bambino, nell’isola di Creta, io e le mie sorelle ci demmo un gran da fare. Bisognava rimetterlo in sesto, curarlo, farlo crescere, educarlo, il tutto di nascosto dal Gran Divoratore. Fu nostra madre Melissa a dirci come cominciare. Ci indicò una grotta sulle pendici del monte Ida; dalla bocca della grotta usciva un albero coi suoi fitti rami a cercare la luce e quasi a proteggerne l’accesso. Ponemmo il bambino in una cesta dorata e appendemmo la cesta a un ramo dell’albero, perché Crono non lo trovasse né in cielo, né sulla terra, né sul mare: esattamente come avevamo imparato a fare con le arnie di terracotta per le nuove famiglie delle api. Io pensavo a dargli il latte. Ne avevo tanto perché stavo già allatando Egipane, il figlio che avevo avuto dal famoso mascalzone. Sono cresciuti insieme e si volevano bene i due piccoli, tutti e due senza padre, si può dire. Io davo il latte e mia madre Melissa ci portava il miele. Dite voi se si poteva dare loro un trattamento migliore. Melissa era davvero una regina nell’età dell’oro. Governava ognuna di noi come una vera ape regina governa il popolo delle api, con l’amore e la severità fatale delle cose che vanno come devono andare. Così come ogni anno l’ape regina faceva morire il fuco che l’aveva raggiunta, allo stesso modo da noi il re sacro durava in carica un anno, la regina sempre.

Il bambino strillava a pieni polmoni e il suo pianto avrebbe potuto insospettire il Signore del Tempo; allora, con breve cenno, Melissa ordinò ai Cureti di pensarci loro. Quelli giunsero rapidi alla grotta e si misero a ballare come erano soliti fare alle feste della Regina Ape, battendo le spade contro gli scudi e sbagagliando con impeto assordante, in modo da coprire i vagiti con festoso fracasso. Facevano sempre così quando volevano impedire alle api di sciamare disordinatamente, e anche per tenere lontani gli spiriti maligni.

In sostanza, però, ero io, Amaltea, che mi prendevo cura di lui. Per quanto non fossi la più bella e nemmeno la più importante tra le mie sorelle, tutti mi riconoscevano come la più saggia e la più generosa. Lo prendevo sulle ginocchia e gli facevo la staccia, lo ninnavo e fingevo di farlo cadere; lui buttava la testolina all’indietro e si affogava dal ridere.

E cantavo per farlo dormire. Non so: ricordate quelle semplici nenie di una volta, che dondolavano su due note sole? Le vostre nonne ve ne avranno certamente cantata qualcuna.

din don

è mort Baldon

sul camp d’ fava

la vecchia filava

filava ‘l cuton

din don…

In quelle antiche cantilene era nascosta tutta la storia dei tempi che allora cominciavano. Ecco, a volte mi domando come fate a non capire. Date tanta importanza a cose che non meritano e lasciate ai bambini quelle che vi sembrano sciocche filastrocche senza senso. Invece è proprio lì che si spiegano la morte, la vita, il destino, e quello che succede di là dove andremo e da dove nessuno ritorna. Ai bambini la fola del morto non metteva paura. Non c’era lutto nel giorno dei morti; anzi, era una festa, e mangiavamo dolcetti che si chiamano proprio così: le fave dei morti.

Io non so dove sia questo campo di fava, ma so che in un campo di fava le anime vanno alla fine del tempo, e che aspettano là di riunirsi col corpo dal quale si sono divisi, in un giorno futuro: così almeno dicevano gli Egizi. Intanto la Vecchia, la Parca, o come volete chiamarla, svolgeva dal fuso il filo del tempo secondo il destino di ogni persona, che Atropo un giorno avrebbe tagliato.

Si preparava la fine di Crono e cominciava quello degli eventi. Il tempo non era più una ruota che ricomincia sempre da capo il suo giro, noioso e immutabile, senza memoria, ma una linea da percorrere in una direzione definita, dall’inizio alla fine. E quante cose si possono fare nel corso di una vita: tante da darci l’impressione che non ci basta il tempo. E quanti cambiamenti! Uno inventa una macchina che non lo fa faticare e lo porta lontano; uno è povero e diventa ricco; uno è ricco e precipita in miseria; i re regnano e vengono abbattuti e chi non ha avuto niente spera sempre che ci sia una svolta, che qualcosa cambi. È questa speranza che ci tiene desti lungo tutto il filo; e sono certa che faremo appena in tempo a sentirci disillusi quando il filo si sarà accorciato o, a un certo punto, verrà reciso. Ed è per questo che la vita non ci sembrerà più soltanto un alzarsi e andare a letto, perché avrà qualche meta da raggiungere; e nessuno potrà semplicemente inghiottendo, cancellare il bene e il male che riusciremo a fare.

Ma cos’è che dicevo? Che il bambino cresceva, prendeva forza, acquistava coraggio e si esercitava in azioni vigorose. I suoi giochi non erano sempre tranquilli. Una volta non volendo mi spezzò un corno: ne restò mortificato; veramente gli dispiaceva. Mi restituì allora quel corno con una magia dentro: potevo trarre dalla cavità ogni frutto che volesse. Lo chiamarono Cornucopia, perché di lì usciva abbondanza di doni per tutti.

Quando poi Zeus fu abbastanza grande per conoscere le circostanze della sua nascita e il pericolo che costantemente correva, decise di passare all’azione. La regina ape lo consigliò allo scopo di farsi coppiere di Crono, e Rea, informata del progetto, lo approvò in pieno. Presentò il figlioletto al marito, che non riconobbe lo scampato alle sue fauci e lo assunse al proprio servizio.

La bevanda fatale fu pronta in un momento. Cosa il ragazzo ci abbia messo non lo so davvero, ma so che funzionò come un robusto purgante. Robusto? Diciamo devastante. Crono lo tracannò secondo costume; deglutì, strabuzzò gli occhi, contrasse lo stomaco in spasmi violenti e ripetuti, tirò su e vomitò una pietra. Poi vomitò Poseidone. Poi Ade. Poi Era. Poi Demetra. Poi Estia. Tornati alla luce, i giovani dei balzarono in piedi, ringraziarono il coppiere e lo elessero loro capo.

La guerra che si scatenò tra i Titani, amici di Crono, e i Ciclopi, amici dei giovani dei, fu un vero cataclisma della natura. Durò dieci anni e si risolse con una vittoria totale e schiacciante delle forze nuove. Furono sperimentate sul campo armi mai viste prima: Zeus collaudò il fulmine, Poseidone il tridente, Ade un elmo che lo rendeva invisibile. Ma l’arma decisiva, quella che sgominò le schiere dei Titani, fu il celebre urlo del puzzone: lui gonfiava il petto villoso, lo comprimeva con tutta la forza e faceva megafono con le mani.

All’udire quell’AAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAH così potente il terrore si diffondeva tra i nemici; il panico, esattamente, il terrore di Pan. Ecco, non lo volevo nominare e m’è scappato ugualmente di bocca. Figuratevi che se gli faccio un urlo io salta come un capretto, il Gran Dio della Natura.

Suo figlio poi, che aveva voluto anche lui prendere parte alla battaglia accanto al suo compagno d’infanzia, fece segno i Titani di un fitto lancio di murici, come fossero sassi. Chissà, forse i poderosi Titani s’imbrattarono di rosso porpora, visto che quei molluschi ne producono, presero paura credendolo il loro proprio sangue: sta di fatto che volsero in rotta ignominiosa. Egipane li incalzava con un’adeguata scorta di murici da lancio; perché, vi devo dire, era solito sguazzare come un pesce sulla riva del mare, dove se ne trovano in gran quantità.

Sguazzava come un pesce: ecco perché, se il Capricorno è il mio tenero figliolo, ha la coda di pesce. Così vi ho raccontato tutto.

 

le fave dei morti
La nýmphē Adrásteia e la capra Amáltheia con il piccolo Zeús
Dipinto di Ignaz Stern (1679-1748), Bibliotheque des Arts Decoratifs, Parigi (Francia)

 

Cos’altro vorreste sapere? Che fine fecero Crono e i Titani? Alcuni folgorati, altri infilzati col tridente, altri ancora trucidati dall’ombra di Ade. I più, dopo una inutile fuga, furono catturati. Atlante, il loro capo, fu punito in modo tale che non gli venisse in mente di fare ribellione un’altra volta: gli misero il cielo sulle spalle e lo costrinsero a reggerlo per sempre, senza riposarsi mai. Crono e gli altri compari sono stati cacciati ed esiliati nelle isole Britanniche, all’estremo occidente. Là il tempo continuava a girare su se stesso e ancora non filava via dritto verso qualche meta importante.

Tanto tempo è passato da quegli anni. Crono è stato cacciato dalle isole Britanniche e da ogni altro angolo del globo. È andato a rintanarsi su Canopo, una stella che noi abitanti boreali non possiamo vedere. Ebbene: voi pensate che là almeno possa starsene tranquillo? Io non ci giurerei. Mi hanno detto che quei popoli che vivono nel cuore più profondo della foresta australe, anche loro hanno preso ad apprezzare i cambiamenti, o non riescono comunque a impedirli. Quelle genti, per esempio, che alle origini di questa storia vivevano come un alveare nel paese dove i corpi non proiettano ombre, che faranno adesso? Vivranno come noi, avranno un cellulare e apprezzeranno finalmente i benefici dell’impresa?

E allora mi viene una domanda: ne valeva la pena? Da un conto però non vorrei dire come quelli che odiano le novità, che si stava meglio quando si stava peggio. Non manca, da quando Crono non governa più, chi lo rimpiange e fantastica che un giorno lui ritorni dall’esilio, dovunque sia andato a rifugiarsi. Non so se hanno ragione; se era meglio per noi girare in tondo sulla ruota del tempo tentando di acchiapparlo per la coda o addirittura di precederlo dov’è diretto. Ma vedo che tutti si sono messi a tirare il filo verso mete sempre più lontane; chi non aveva un traguardo se lo inventa, per sentirsi motivato e importante; per essere sicuro, soprattutto, di andare in qualche direzione. Voglio avere cinque ville con piscina. Voglio fare le vacanze su una spiaggia inesplorata del Calimantano. Voglio mettere insieme la più fantastica collezione di uccelli impagliati che si sia mai vista. Qual è, se no, lo scopo della vita?

Fu il denaro a garantire il successo dell’impresa, e lo scopo dell’impresa consisteva nell’accumulare denaro; solo pochi si lasciarono scoraggiare dalla certezza che, finito il filo, non portiamo via niente delle cose che abbiamo accumulato.

Voi sapete meglio di me, amici miei, come la storia del mondo è andata avanti. C’è chi dice che sia andata troppo avanti e che sta per finire. Che ne dite voi? Può essere che siamo arrivati al capolinea perché il tempo, che sembrava diritto come un fuso, in realtà andava a congiungersi col suo inizio disegnando, impercettibile per noi, un’immensa parabola ritorta? Non fate domande troppo difficili alla capra. Io so soltanto che la vecchia continua a filare, e che il filo è teso fin quasi a spezzarsi. Allentiamolo un po’. Magari vorremmo riposarci. Magari non ci dispiacerebbe fermarci ad annusare le stagioni, e a guardarle ruotare una sull’altra con la loro vicenda di neve, di fiori, di foglie, di frutti, e non sappiamo come fare.

Non so cosa dirvi. Ma qualunque sia la soluzione, e se anche venisse fuori che il tempo non è né tondo come una giostra, né diritto come un’autostrada, ma un’enorme spugna piena di buchi neri e di fughe luminose, questo vi dice la tenera Amaltea: non dimenticate la filastrocca, cantatela ai vostri bambini, anche se a voi sembrerà una cantilena noiosa e sonnolenta che dondola su due note sole.

din don

è mort Baldon

sul camp d’ fava

la vecchia filava

filava ‘l cuton

din don…

 

                                                                                                                                         Leonardo Badioli

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