Lisandrin Barucca: “vaggh a capulà, vado a pescare le cappole”

 

Alla fermata dell’autobus, subito oltre il Diana, è la piccola repubblica di Lisandrìŋ Barucca. Lo trovo che ha appena finito di separare dal pescato i longoni, che non si vendono, dalle lumachine, che vanno a otto euro al chilo. Ha sempre la sua bella faccia ironica e gli occhi pungenti che capiscono oltre le parole. Non aspetta nemmeno che gli dica il motivo della visita e se voglio qualcosa. Allarga i grandi baffi a manubrio, fa bocca da ridere e si accomoda a gambe larghe sul banchetto. «Adesso te ne racconto una. Al tempo del fronte per questa campagna s’incontrava ogni sorta di gente, inglesi, polacchi, neozelandesi. Su a Montignano c’era un polacco. Incontra un anziano che scendeva per la strada del mare. “Tu lavorare?” gli fa. “Sì,” risponde lui, “vaggh a capulà, vado a pescare le cappole”. “Lavoro buono?” “Eh. Lavoro buono? Tu perché non sapere cosa essere ghincio!”

«Il ghincio è un verricello che si monta su una tavola posta di traverso in mezzo alla battana per andare alla pesca delle cappole, le vongole, come le chiamate voi. La parola deriva da Vince, il nome dell’inglese che l’ha inventato», mi spiega Lisandr, che è anche filologo. Come si adopera? Quando uno è sul posto della pesca butta l’ancora, un ancorotto legato ad una cima, settanta, ottanta, cento metri di corda avvolta al verricello. Poi voga all’indietro fino a tendere la cima. Fatto questo butta in acqua il ferr da cappul’, lo strumento di pesca: un rastrello fatto a mezzaluna, assicurato ai fianchi della barca con due braghe, dal verso di poppa. Secondo quant’è fonda l’acqua si allungano o si accorciano le braghe. Il ghincio ha due manovelle, da una parte e dall’altra, e un riduttore che facilita l’avvolgimento. Due persone girano la manovella e avvolgono la cima al verricello: in questo modo tirano la barca verso l’ancora e trascinano il rastrello. Intanto che la barca lentamente avanza, un terzo uomo, il più esperto e magari il più robusto, da poppa muove un’asta, l’antenna, e scuote il rastrello per liberarlo dalla sabbia in modo che il traino possa andare avanti.»

«Così si pescavano le vongole fino a trent’anni fa,» dice ancora Lisandr con gli occhietti che ridono. «Andavano in tre; sulle barche grandi anche in quattro o cinque, secondo la stazza della barca e la dimensione dell’attrezzo. Applicavano anche una baionetta, una specie di prolunga dell’antenna, per poter manovrare dove l’acqua è più fonda. Vicino alla riva, fin dove si tocca, si poteva pescare senza barca, col bracciòlo, una cinghia fatta apposta per il traino del rastrello a spalla, camminando all’indietro in mezzo all’acqua e scuotendo la sabbia con curiosi colpi d’anca. Andavano durante la stagione fredda, si scalzavano anche con la brina e si asciugavano coi sacchi di juta. Gli stivali a quel tempo c’erano solo in America. Le donne e i bambini raccoglievano a mano lungo la battigia.»

Intanto che racconta vien facendo (perché la bocca non tiene le mani), seduto sul banchetto a fianco della pescheria che ha tirato su sul lungomare, un chiosco in muratura che Cristiana, una delle sue quattro figlie, cura e tiene pulito; di fronte a lui siede la moglie, e insieme separano le lumachine che ha appena portato in terra, dai longoni, che si buttano via.

«La fatica? Tu perché non conoscere ghincio.» E si ferma per ridere di nuovo. Quando dice le parole del mare quasi urla per farsi capire, come avesse a che fare col polacco. Poi precisa: «Dipende da quanto è duro il fondo. Noi diciamo che d’inverno la sabbia è piombata; allora si fa anche più fatica a trascinare la barca e lo strumento.»

«A essere sinceri io il ghincio l’ho assaggiato appena: non ho mai fatto questa pesca per lavoro. I genitori, loro sono i veri intenditori e io li aiutavo qualche volta. La pesca delle vongole cominciava in autunno e andava avanti per tutto l’inverno fino a primavera; poi si interrompeva, perché quando è maggio la vongola, si dice, butta il latte, si riproduce. Cambia anche sapore: allappa e non è buona da mangiare. Adesso le mangiano lo stesso. Cosa vuoi, i palati raffinati di oggi, quelli che vanno ai ristoranti di lusso e mangiano la roba giapponese, non avvertono più niente. Una volta – e si ferma per dire una cosa più importante – i pescatori alle cappole davano respiro, le lasciavano riposare per quattro o cinque mesi; facevano attenzione a certe cose: senza saperlo, rispettavano i cicli naturali. Durante il periodo della riproduzione ognuno si arrangiava in altro modo: c’erano i tre mesi delle seppie, con le nasse; chi ce l’aveva, armava la barca a vela per la pesca delle sogliole; i più lavoravano in campagna: perché nessuno era riuscito ad arricchirsi dopo avere passato l’inverno a cappolare.»

Lisandr è un uomo colto più di quello che vuole apparire, e se uno gli da spago si schermisce ma non si tira indietro. Quant’è che sente dire che le cappole da sempre sono state sinonimo di povertà. Il nome varia secondo le marinerie: a Senigallia le chiamano cappole, da capsulae latino; da Marzocca in giù il loro nome è concole, da concha; vongole non è che una variante meridionale della stessa parola, che si è affermata in tutta Italia. Da Pesaro in su, lungo tutta la costa romagnola, le vongole hanno un altro nome, puràaz’, le poveracce: proiezione evidente che riflette sul mollusco la povertà di chi una volta era costretto a farne alimento quotidiano, e quindi in primo luogo povertà di chi le andava a pescare. Mia nonna raccontava che nella sua gioventù, attorno al 1920 e ancora prima, le ragazze di Gabicce non consideravano il matrimonio con un pescatore una gran sistemazione: “Me n’al voi on puragèr”, dicevano, “non voglio sposare un vongolaro”. Quasi tutti in paese erano puragèr e quasi tutte le ragazze finivano per sposarne uno.

Cesano, Marzocca, Fiumesino erano, fino a cinquant’anni fa, villaggi di pescatori: poche case a un solo piano fatte di sassi tenuti insieme con calce e polvere di strada; ma il fatto di prendere le cappole e, in generale, di avere una barchetta e con quella pescare sotto costa non dava ai loro abitanti di per sé pieno statuto di pescatori: il loro statuto vero era quello della povertà e il loro lavoro ogni possibile espediente che fosse capace di ingannarla.

Gli storici, i pochi che si sono misurati con la storia della pesca, ricordano l’estrema povertà di chi va in mare. “Non vivono, sopravvivono”, scriveva Sergio Anselmi, e regalava una citazione da Braudel che definisce la vita quotidiana dei rivieraschi nel ‘500 “una singolare associazione dei lavori agricoli, degli orti, dei frutteti e della pesca, della vita marinara, saggia forma di vita, residuo di vecchi strati marittimi del Mediterraneo.”

«Saggia sarà anche stata, ma povera lo era di sicuro» è il commento di Lisandr, che apprezza gli studi quando lui ne è l’oggetto: tanto più che lo scritto si affretta a dargli ragione: “La pesca Mediterranea si può esprimere nelle categorie della sussistenza e dell’attività costiera per il piccolo mercato”; e “lo stesso ricco Adriatico non garantisce se non una irrisoria remunerazione ai pescatori”.

Il racconto orale, che rappresenta tuttora la fonte prevalente per chi scrive di storia della pesca, ne dà testimonianza. Durante l’anno scolastico 1996-1997 i bambini delle scuole elementari del Cesano intervistarono, sulla scorta di uno schema di inchiesta che Anselmi aveva suggerito, i nonni pescatori, i parenti più anziani, le vedove e i pochi pescatori ancora in attività. Dai dati prodotti emerse che, dal secondo dopoguerra a tutti gli anni sessanta, i pescatori di professione al Cesano erano una quindicina. Nel 1960 i registri della parrocchia iscrivevano, su 250 famiglie residenti, solo 12 capifamiglia con la qualifica di “pescatore”. Erano costoro i possessori di barche di una certa stazza, a vela o a motore, o imbarcati sui pescherecci di Senigallia e Fano. Erano tanti, invece, quelli che possedevano battane e praticavano la pesca nelle acque non profonde davanti a casa loro, per pura sussistenza o per fare baratto del pescato coi prodotti della terra. La generazione del primo dopoguerra ancora integrava la stagione di pesca con quella della campagna aiutando i contadini nella semina e nelle raccolte autunnali; d’estate, in cambio del lavoro nella mietitura, ottenevano il permesso di spigolare; per converso, c’erano contadini-pescatori, che lavoravano la terra e durante l’inverno, quando l’agricoltura e ferma, andavano a pescare. Nel secondo dopoguerra questa “singolare associazione dei lavori” non riusciva più a garantire la sussistenza minima e ridusse ancora di più i ranghi di coloro che facevano della piccola pesca l’attività prevalente. Il lavoro di fabbrica dava da vivere; fino agli anni settanta, nel territorio di Senigallia, occupava circa duemila persone.

Il racconto di Lisandr, per quanto io non sia né storico né gran conoscitore, ma solo osservatore occasionale, mi pare renda conto di questa evoluzione. Il padre da ragazzo faceva il contadino. Ha fatto la guerra del ’15 -’18; tornato e rimasto qualche tempo in famiglia, nel ’21 ha comprato una barchetta. Lui invece, nel secondo dopoguerra, è andato a lavorare in fabbrica perché la piccola pesca, anche se integrata con altre attività, non bastava più; ma non ha mai dimenticato la passione per il mare e appena ce l’ha fatta ha lasciato la fabbrica e ha ripreso quei retini che non aveva mai abbandonato: lui è un pescatore di ritorno. Più avanti, coi risparmi e riuscito a comprare l’Arabìta – a metà con il cugino Nello – un battellino cabinato a fondo piatto che salpa e tira a secco tutti i giorni; lo tiene d’occhio dall’altro lato della strada, e quando non lo guarda lo fa solo per non consumarlo.

(da Leonardo Badioli, “Il mare di sopra”, di prossima pubblicazione)

 

 

storie di mare ecomarche
Alessandro Lisandrin Barucca

 

 

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