In Egitto la libertà accademica è minacciata. Ma se i militari non danno alcun valore alla vita umana, perché dovrebbero preoccuparsi della libertà e dei diritti civili?

 

   di  Khalil al Anani, Al Araby al Jadid, Regno Unito*

I regimi militari sanno fare bene una sola cosa: uccidere, senza distinzione tra i loro cittadini e quelli stranieri. Né è la prova il caso del giovane dottorando italiano Giulio Regeni, ritrovato morto alla periferia del Cairo il 3 febbraio. La sua sorte ricorda quella toccata a molte altre persone in Egitto dopo il colpo di stato del 3 luglio 2013, quando il maresciallo Abdel Fattah al Sisi ha preso il potere. Si rapisce, si tortura, si uccide e poi ci si sbarazza del cadavere come possibile, ai bordi di una strada o altrove. Non importa che la vittima sia uno straniero, uno sconosciuto, un esponente dei Fratelli musulmani o un militante rivoluzionario. Il procedimento è lo stesso.

Qualcuno dirà che non bisogna dare la colpa alla polizia prima della fine dell’inchiesta. Ma chi fa appello alla prudenza e si rifiuta di trarre “conclusioni affrettate” dà prova di una grande ingenuità riguardo alla sincerità delle autorità egiziane. Soprattutto dimostra di essere cieco e avere la memoria corta: in Egitto gli omicidi compiuti dalla polizia sono ormai routine, una sorta di rituale quotidiano accompagnato da ogni genere di supplizio ed eccessi di sadismo.

Dopo il rimpatrio della salma e l’autopsia, le autorità italiane hanno dichiarato che Regeni è stato vittima di una brutalità “animale”. Ritengono che sia stato arrestato e interrogato dai servizi di sicurezza egiziani a proposito dei suoi contatti con i sindacalisti e i militanti dell’opposizione che aveva conosciuto nell’ambito delle sue ricerche.

La fine di Regeni ricorda quella di Mohamed al Gundi, arrestato e torturato a morte nel 2012 al Cairo dopo aver partecipato alla manifestazione per il secondo anniversario della rivoluzione del 25 gennaio. Ma ricorda anche il caso di Khaled al Said, il ragazzo pestato a morte nel giugno del 2010, meno di un anno prima dell’inizio della rivoluzione, che era diventato un’icona della gioventù rivoluzionaria, contribuendo in modo importante alla mobilitazione di piazza. Ma più in generale, questa tragedia ricorda quella di centinaia di giovani esponenti dei Fratelli musulmani, anche loro torturati per ottenere false confessioni. Alla fine degli anni novanta c’era stato un altro caso simile, quello di uno studente afgano iscritto a un’università del Cairo che aveva avuto la sfrontatezza di criticare il primo ministro dell’epoca. Anche lui era stato trovato morto con segni di tortura sul corpo.

Chi è dunque il colpevole di questi crimini? Lo sanno tutti: è lo stato di polizia per il quale i metodi dei baltaghi, i delinquenti assoldati per fare il lavoro sporco per conto delle autorità, sono una cosa normale. Lo stesso presidente Al Sisi si permette di lanciare minacce nei suoi discorsi e di promettere “vendetta alle famiglie dei poliziotti o dei soldati morti in servizio”. E che dire del ministro della giustizia Ahmed al Zanad, che incita pubblicamente all’uccisione dei Fratelli musulmani? Per non parlare dei poliziotti, che imperversano senza che nessuno metta dei limiti ai loro abusi.

E’ curioso che alcuni s’interessino al caso di Regeni solo per quello che la sua morte significa per la ricerca universitaria. In Egitto la libertà accademica è effettivamente minacciata, come tutte le altre libertà. Ma se i militari non danno alcun valore alla vita umana, perché dovrebbero preoccuparsi della libertà e dei diritti civili? E’ bene ricordare i turisti messicani uccisi dall’aviazione egiziana nel Sinai nel settembre del 2015, ma anche e soprattutto le centinaia di persone massacrate dalle forze dell’ordine il 14 agosto 2013 durante lo sgombero di un sit-in di protesta contro il colpo di stato di Al Sisi. O le 37 persone bruciate vive in una camionetta che trasportava prigionieri quattro giorni dopo. O ancora la militante di sinistra Shaima al Sabbagh, uccisa da un poliziotto mentre deponeva dei fiori in piazza Tahrir in ricordo della rivoluzione, il 24 gennaio 2015.

Niente dovrebbe sorprenderci da parte di questo regime militare con tendenze fasciste. Con l’aiuto della stampa sottomessa e la connivenza di “intellettuali” con simpatie militari, la tortura e gli omicidi sono ormai tollerati e passano per una forma di patriottismo. Tutto in nome di uno slogan perverso: “Riaffermare l’autorità dello stato”.

*Khalil al Anani è uno studioso di movimenti islamici e politica egiziana. Insegna alla scuola di studi internazionali della Johns Hopkins university e collabora con diversi quotidiani arabi

 

da www.internazionale.it

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