Il pugile che sul ring ballava come una farfalla
e pungeva come una vespa
Nel 1996 Muhammad Alì appare come ultimo tedoforo alle Olimpiadi di Atlanta. Di fronte al braciere l’ex campione commuove il mondo, mostrando i segni del morbo di Parkinson da cui era affetto. Nell’occasione, Emanuela Audisio (cittadina senigalliese e nota giornalista sportiva) scrive per Repubblica un significativo pezzo. E’ con questo – riportato integralmente – che vogliamo ricordare “the Greatest”.
TREMAVA come un budino. Con tutto il braccio sinistro morsicato dalla malattia, come se fosse attaccato ad un martello pneumatico invisibile. Un robot gonfio, goffo, malato, che a malapena riusciva a tenere in mano la fiaccola. IL PUGNO DI ALI’ COMMUOVE IL MONDO CON GLI OCCHI fatti a pezzi dai medicinali chiedeva aiuto perché le fiamme gli stavano bruciando il braccio. Proprio lui, “The Greatest”, il Più Grande.
Il pugile che sul ring ballava come una farfalla e pungeva come una vespa. Ma anche così: devastato dal Parkinson, dall’ imbarazzo, dall’ impossibilità di alzare il braccio, nudo davanti al mondo nella sua infermità, Mohammed Alì ha colpito duro. Non come prima, ma sicuramente più di prima. E nelle Olimpiadi che si tuffano con freddezza nel Duemila ha dimostrato che ci sono ancora cose che fanno battere il cuore per qualcosa diverso dalla paura. Perché in quel momento l’ America non era il potente presidente Clinton, che frettolosamente in 133 secondi liquidava la sua entrata in scena, così imbottito dal giubbotto antiproiettile che quasi inciampava nel suo primo passo sul campo, non era Janet Evans, la giovane bianca e ricca nuotatrice californiana, che goffamente con le sue gambe a X faceva correre alla fiaccola il suo ultimo giro di pista, ma questo testardo musulmano nero di 54 anni, quest’ uomo letargico che non riesce più a parlare, ma che si ostina ancora a dare.
E mentre la telecamera, anche lei imbarazzata, staccava da Alì che non riusciva ad accendere il fuoco dell’ Olimpiade, non potevano non venire in mente altre fiamme, quelle violente della guerra civile che nel 1864 avevano raso a terra Atlanta, quelle più recenti delle rivolte dei ghetti, e quelle dolose che in quest’ ultimo anno hanno consumato più di settanta chiese nere nel sud, e come sia difficile per questo paese guardare avanti e trovare nuovi miti a cui affidarsi, quando il passato è così tormentato. Se c’ era un messaggio da dare è stato questo: l’ Olimpiade non siete voi, generazione nuova, giovane bella, carina e egoista, brava nell’ evadere il fisco con false residenze, orgogliosa di non dichiarare mai da che parte sta, fiera del suo individualismo e del suo corpo supervitaminizzato, ma questo signore appesantito dalle ribellioni, intontito dal morbo di Parkinson e dai cazzotti inutili presi per poter finanziare la causa, e persino fregato dai fratelli neri che lo hanno ripulito di 150 miliardi.
Questo ex nemico dell’America, considerato un fuorilegge più pericoloso di Jesse James, questo ragazzo di 25 anni che convocato in caserma il 28 aprile del 1967 per essere arruolato nella guerra in Vietnam, malgrado tre anni prima lo avessero destinato ai servizi sedentari, rifiutò recitando una poesia perché lui contro i vietcong non aveva niente. E che quando gli chiesero se aveva capito bene cosa voleva dire rifiutare l’ arruolamento rispose “benissimo” e si beccò venti miliardi di lire di multa, cinque anni di carcere e il furto più grande: quello del titolo mondiale. Sì, gli presero anche quello, fu dichiarato decaduto. In prigione lo chiamerà il filosofo Bertrand Russell per dargli la sua solidarietà: “Cercheranno di spezzarla perché lei è il simbolo di una forza che non riescono a distruggere”. E Alì risponderà: “Lei è meno tonto di quello che sembra”. Tornerà sul ring dopo 43 mesi di esilio: a danzare, a rivincere, a fare una cosa mai riuscita prima: conquistare due volte il titolo mondiale dei massimi.
Se c’ era un’ emozione pura da dare è stata questa: Alì che emerge dalla notte, alla fine di un’ estenuante e fredda cerimonia d’ inaugurazione in cui il pubblico ha applaudito solo la squadra di casa. E nel gesto di Janet Evans che cercava di aiutare il tremolante Alì, perché non si fidava a lasciargli la fiaccola in mano, c’ era forse il primo grazie ufficiale dell’America al suo campione. Per la prima volta l’ Olimpiade non ha scelto come suo simbolo uno che piace a tutti, che ha unito tutti, famoso solo nello sport e in un continente, ma un contestatore che ha diviso il paese, che è stato molto odiato, che nel ‘ 64 quando conquistò il titolo mondiale dei pesi massimi si chiamava ancora Cassius Clay, ma prima di salire sul ring pregò con Malcom X per chiedere la benedizione di Allah, che ripudiò perfino la moglie, l’ indossatrice Sonji Roi, perché restia ad abbracciare le norme della nuova fede. E che sul ring si vendicò di Ernie Terrell che insisteva a chiamarlo “signor Clay”, accompagnando ogni pugno con la domanda: “Come mi chiamo?”. Uno a cui l’ America ha mandato i suoi sicari a casa, a scaricare i fucili sul portone. Uno che è amico di tutti quelli che non piacciono all’ America: Saddam Hussein, Fidel Castro.
Uno che ha buttato nel fiume la medaglia d’ oro vinta alle Olimpiadi di Roma nel 1960 dopo che gli avevano rifiutato l’ entrata in un bar per soli bianchi. “Perché se non mi servi nemmeno a bere una birra, vuol dire che conti davvero poco”. Per la prima volta l’ Olimpiade sempre così tradizionale nei suoi riti ha accettato di sconvolgere il suo cerimoniale. L’ ultimo tedoforo è sempre arrivato di corsa, ma Alì non poteva, nelle prove segrete non era riuscito nemmeno ad alzare la fiaccola, per questo l’ accensione del braciere era stata modificata e affidata ad un filo magico. Per questo quando la tv ha allontanato i suoi occhi indiscreti qualcuno è andato ad aiutare Alì che non riusciva a compiere l’ operazione. E in tanti hanno pianto nell’alba italiana e nella notte americana. Non per il campione che non c’ è più, che ormai rifiuta le cure e i medicinali, che è stanco di tutti i trattamenti sperimentali a cui l’ hanno sottoposto messicani e cubani, non per il grande pugile che sul ring ballava, boxava e parlava a velocità supersonica, ma per l’ umiltà con cui ha accettato di farsi frugare nelle pieghe della sua nuova immobilità e per come si è denudato mostrando la sua totale dipendenza.
Non crediate che Alì, con cui Bill Payne aveva preso segretamente contatti da due mesi, ricordandosi che il suo match di rientro dopo la lunga squalifica era avvenuto proprio ad Atlanta, non si sia reso conto di dov’ era e di come è ridotto. Alì dopo nove figli e quattro mogli ha una vita pienissima, viaggia molto, dedica molto tempo ai bambini in difficoltà e ha appena aperto a Washington la sua prima catena di ristoranti che si chiama “Muhammad Alì Rotisserie Chicken”. Ha da anni problemi con la parola, per questo spesso usa la moglie come interprete, ma per il resto capisce benissimo, e se gli volete bene non dovete mai mettergli sotto gli occhi la sua rabbiosa foto con Liston a terra. Non gli piace essere così com’ è adesso, aver perso tutta la sua diabolica dialettica. “Il labbro di Louisville”, lo chiamavano all’ inizio. Ma basta avvicinare le orecchie alla sua bocca per sentire che vi dice: “Non voglio che abbiate pietà di me, che diciate povero Alì o che ho combattuto troppo. Ricevo ancora 300 lettere al giorno. La boxe mi ha ripagato di tutto. Non siate dispiaciuti per me, ma date la vostra simpatia a qualcun altro, a chi ne ha bisogno”. E questo ha detto l’ altra sera, a suo modo. Ci proveremo Alì. Ma con te era più facile, più bello, e più giusto. E chi se ne importa di questa accensione della fiaccola un po’ handicappata. L’ importante non è mai stato alzare le braccia, ma la testa.