incontro con la badessa
Francesco Hayez “la monaca di Monza”

Una scelta d’amore e un pianoforte che non suona più

 

Ho saputo finalmente come vivono le suore di clausura, le suore francescane conventuali, con saio nero, grazie alla conversazione con la loro Badessa. La Badessa del monastero di S. Maria Maddalena di Serra de’ Conti. È stata un’esperienza che non dimenticherò facilmente. Mi sono portato dietro un amico per non sentirmi solo. Entrando ho avuto l’impressione come se il “passato” si fosse spostato in un angolo: la ruota nell’ingresso c’è, ma non la si usa quasi più, la conversazione iniziata con chi ha bussato la si continua in un salottino.

La Badessa io non l’ho vista entrare, distratto dalla suora che ci conduceva nel salottino. L’ho scorta improvvisamente girando appena la testa. Ricordate la Lucia de “I promessi sposi” che ignara di luoghi conventuali non sa dove volgere lo sguardo e poi vede all’improvviso la Monaca, che il Manzoni chiama la Signora?

La nostra Badessa è apparsa così. Di media altezza, dai tratti garbati perché giovanile, ma con una espressione di serietà che sembrava velarla un poco.

L’altra suora alta, molto giovane, un viso tondo, occhi mobili, sorridenti come quelli delle ragazze di oggi.

Inizio a parlare con un foglietto tra le mani, il cuore mi batte un poco.

“Le suore, qui dentro, quante sono?”.

“Dieci”, mi ha risposto la Badessa.

“Le età?”.

“La più anziana 83 anni, la più giovane 34. Una novizia solo pochi mesi fa ha preso i voti, ed ora è suora”.

Vengo a sapere, curioso come sono, che le novizie girano per il convento con i loro capelli sciolti. Il velo lo avranno solo da suore. Tra queste suore, due sono laureate, le giovani hanno una licenza superiore, le più attempate una minore istruzione.

“Chi entra in convento non ha bisogno di una laurea” mi precisa la Badessa con un tono di voce netto, che comincio ad associare al suo viso un po’ tirato. “Ora l’Ordine gradisce che le suore, se lo vogliono, si iscrivano ad un Istituto Superiore di Scienze Religiose. Ma non escono per studiare”.

“Quando possono uscire?”.

“Per necessità personali, come per una visita medica specialistica” ed aggiunge, con una punta di scherzosa ironia, non accompagnata però da un cenno di sorriso “dal momento che il loro corpo deve lasciare il convento”. Continua: “Escono per portarsi in famiglia se chiamate da una ragione grave, per esempio una malattia dei genitori o dei fratelli o delle sorelle, non di altri parenti meno stretti”.

“Votate?”

Mi merito una risposta secca: “Siamo cittadini come gli altri”.

“Ma il voto è informato?”. Sono pungente, lo riconosco.

Mi risponde: “Leggiamo i giornali”.

“Le testate?”.

“Non sono importanti”.

Ed io insisto. Sono giornali cattolici, dovevo supporlo. Un solo quotidiano nazionale, un settimanale diocesano, molte riviste missionarie. Sapere il rischio che corrono i missionari invita le suore a pregare. Le suore pregano anche per chi non è cristiano, ma è mite ed è perseguitato. La Badessa mi dice che hanno pregato per il Tibet. Sapere questo mi ha fatto piacere. Allora hanno una finestra, anche se piccola, aperta sul mondo? Certo, ma non grazie ad Internet. C’è la televisione che però non va aperta a caso. Ma per avvenimenti solitamente religiosi o di interesse religioso. Anche per film religiosi, non importa se di taglio difficile, come “The Passion” di Mel Gibson. Ho immaginato le suore tutte intorno alla radio o alla televisione. Eh sì, perché ordinariamente tutto stando insieme. Sole, per conto proprio, neppure durante la ricreazione. Forse le più vecchie, che hanno bisogno di stare sedute, magari a sonnecchiare.

“Le suore giocano?”.

“A volte, ma i giochi devono impegnare più persone, sotto Natale indicatissima è la tombola”. La Badessa dice queste cose illuminandosi tutta e sorridendo, il che non le capiterà spesso. “I premi della tombola sono confezionati dalle suore, lo fanno con piacere, e a riceverli si è sempre tutte contente.

Il mio amico chiede qualcosa anche lui: “Le suore possono cantare o suonare?”.

La Badessa: “No, ci si esercita solo per i canti liturgici, come sempre tutte insieme”.

Veniamo a questo punto a sapere che nel convento c’è un pianoforte, ma scordato.

La Badessa: “Anche se non lo fosse, io che so suonare non lo suonerei…non abbiamo tempo”. E fa un gesto con la mano per sottolineare le tante cose: preghiere, preghiere, preghiere!

Ho immaginato, allora, le suore nella penombra della loro chiesa, impegnate nella preghiera. Le suore sono capaci di entrare nella cosiddetta preghiera profonda, fatta con gli occhi socchiusi che le isola, nella percezione del sacro tutto intorno. E noi sapremmo fare altrettanto? Chissà! Ma le suore, oggi, non si svegliano più a mezzanotte per recitare il “mattutino” come in passato.

Il discorso scivola sull’accettazione di una vita, secondo me, nel complesso difficile.

La Badessa risponde: “Non dovete pensare che nella nostra vita ci siano cose difficili o cose facili, perché tutto affrontiamo per una scelta fatta all’inizio, che è una scelta di amore”.

La Badessa non dice una scelta di servizio, come avrebbe potuto. Anche l’altra suora, quella molto giovane, interviene a chiarirci ancora questo argomento, che entrambe ritengono importante: “La moglie non accetta forse la vita con l’uomo che ha scelto, in tutti i suoi momenti, entusiasmanti o meno?”.

Mi piace questo ricorrere delle suore al linguaggio dell’innamoramento. La suora giovane mi spiega un’altra cosa: che l’ubbidienza che si vive nel convento “non è cieca, ma dialogata sull’amore”.

Si passa a parlare d’altro: ricordando il costume severo dell’antica clausura, evidenziato i visitatori del Museo, chiedo: “Le suore oggi dormono in camerette  singole, hanno ognuna i propri vestimenti in un armadietto?”.

“Non necessariamente, potrebbero dormire nel dormitorio comune ovvero in singole stanze. A seconda della disponibilità. Negli armadietti hanno solo l’essenziale”.

“Allora, come in antico, come nel Cinquecento?”.

“Per altro” continua la Badessa “devono fare richiesta alla suora guardarobiera, questo ci educa alla sobrietà”.

E poiché ho fatto l’insegnante, mi azzardo a sondare il campo delle reazioni interpersonali di una comunità. E chiedo se può capitare che una suora si proponga, anche inconsapevolmente, come un esempio, che insomma dia consigli, che predichi, che spazio all’amore di sé.

La Badessa mi guarda e fa subito la differenza fra l’amore di sé e l’autostima, quello va scalzato, questa sollecitata. “Ma a volte” finisce in un soffio di voce “il carattere resta quello che è”.

Il colloquio sta volgendo alla fine, allora cerco di richiamare precipitosamente alla mente altre cose.

“Le suore lavorano d’ago, sferruzzano come in passato per la gente di fuori?”.

“Sì” e questa è un’altra piccola finestra sul mondo.

“Il latino nella liturgia?”.

“Sono indifferente”.

“Il silenzio?”.

“C’è, ma non sovrasta. Ordinariamente non a pranzo e non a cena. Ma c’è durante i pasti nel giorno di Quaresima o in altri momenti di richiamo liturgico. Il pasto è comune per tutte le suore. Questo ci aiuta ad inserirci nella comunità”.

Come in antico, aggiungo io.

Se tornassi a rivedere la Badessa, la ringrazierei ancora perché ha avuto pazienza, perché è stata gentile, perché ha partecipato alla conversazione guardandomi mentre parlavo, nonostante l’immobilità del suo viso. E poi la pregherei di una cosa…di fare accordare quel vecchio pianoforte che si trova in convento, per suonarci sopra qualcosa, durante la ricreazione, con tutte le suore attorno…che so? Un “Notturno” di Chopin o un movimento per piano di una Sinfonia di Beethoven, per esempio la Sesta, la Pastorale che concilia un sentimento di quiete. Le suore giovani e non più giovani socchiuderebbero gli occhi e ringrazierebbero Dio di avere aiutato menti umane a fare cose così belle. E nella giornata delle suore non sarebbe un “buco” questo diversivo, ma una preghiera che continuerebbe sempre, sempre, sempre.

 

                                                                                                                                         Alessandro Casavola

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