Lasciò le Marche per la Norvegia

Luigi di Ruscio (1930 – 2011) si fermò alla quinta elementare, fece molti mestieri. Nel 1957 emigrò in Norvegia dove per quarant’anni lavorò in uno stabilimento metallurgico, si sposò con una donna del posto ed ebbe quattro figli. Tra i suoi libri, l’esordio “Non possiamo abituarci a morire”, quindi “Le streghe non s’arrotano le dentiere”, “Istruzioni per l’uso della repressione”, “Palmiro”, “Le mitologie di Mary”, “Poesie operaie”, “Cristi polverizzati” e “Romanzi”

La vicenda esistenziale e poetica di Luigi di Ruscio è senza dubbio tra le più singolari della poesia italiana degli ultimi decenni. “La mia patria ridotta alla lingua italiana/a quello che riesce a rivivere in questi versi”, come afferma in una tarda poesia. Nato a Fermo in un ghetto di sottoproletari nel 1930, passato direttamente dalla scuola elementare ai mestieri più diversi, comunista in odore di anarchia, autodidatta e dunque lettore accanito e imprevedibile (tanta letteratura, tanta filosofia), nel 1957 era emigrato a Oslo, dove per oltre 40 anni ha lavorato come operaio alla catena di montaggio (proprio nella capitale norvegese è mancato otto anni fa, il 23 febbraio 2011). Assieme ai ricordi dell’infanzia e della giovinezza fermane, è proprio questo – la fabbrica, il lavoro, gli automatismi fisici e psichici indotti – il cuore della sua poesia. Non è certo stato, in ogni caso, quel che si dice un letterato di professione.

Va detto subito, allora, che la singolarità dell’esistenza trova corrispettivo nell’originalità e qualità della poesia. Di Ruscio è un poeta d’indubbio valore. Di conseguenza, bene ha fatto Fabio Pusterla a proporre una scelta consistente della sua opera poetica nella collana che dirige per le edizioni Marcos y Marcos, tanto più se si considera che il poeta di Fermo non è ancora conosciuto quanto merita. Il volume è questo: Poesie scelte 1953 – 2010, a cura di Massimo Gezzi e con la prefazione di Massimo Raffaeli. Si tratta di una scelta antologica, dall’esordiale Non possiamo abituarci a morire (1953) fino all’ultimo L’iddio ridente (2008), che entro certi limiti può considerarsi d’autore, in quanto è tratta da una più ampia selezione che il poeta stesso aveva composto nel 2010. Va ricordato allora che i testi si presentano ampiamente rivisti rispetto alle stesure originarie, secondo una direzione di contenimento dell’esuberanza espressiva che ha giovato a questa scrittura, limando certe ridondanze o sviamenti meno necessari senza nulla sacrificare dell’energia, del calore, del cuore grande e appassionato che ne costituiscono il tratto dominante. 

Nella sua prefazione, che è eccellente, Raffaeli ha offerto la chiave interpretativa probabilmente più giusta per comprendere questo poeta. “Luigi di Ruscio – scrive infatti – al di là delle ovvie etichette, non è stato né un poeta operaio né un operaio poeta ma, più semplicemente, qualcuno che ha saputo tradurre con i mezzi della poesia la condizione operaia nella condizione umana tout court”. Leggendo le sue poesie si troverà che questa assimilazione è costante. Proprio come si può riconoscere un continuo trapasso tra la materia, le forme, il gesto forte ma costretto del lavoro, e la scrittura poetica: “non ho fatto altro che saldare fili di ferro di sei millimetri di diametro / non so neppure a che serviranno questi versi che diventano sempre più lunghi / se la scrittura è una condizione non è precisamente la mia condizione”.

Si vede subito come la scrittura sia un fatto decisivo, una pratica irrinunciabile, eppure come non basti affatto. Di Ruscio non chiede poesia alla poesia. Scrive protestando, recriminando, inveendo, spesso anche celebrando e cantando (l’amore, la famiglia) ma solo e sempre in nome di un mondo e di una vita più giusti. Tutto qui. Torna spessissimo, allora, il riferimento al rito notturno della scrittura poetica, ma anche all’avvoltolarsi tautologico e impotente delle “carte squilibrate” con la loro “musa luridissima”. Il vizio assurdo, così come lo chiamava Pavese, da Di Ruscio molto amato. Ma è pur vero che in questi versi, sebbene sottoposta ai dubbi e alle ironie più feroci, compare più volte la parola “speranza”. Il che non è comunque senza significato. 

E’ un poeta di cui si sente perfettamente la voce che parla, quasi la si potesse toccare con mano. Ma soprattutto la sua scrittura risulta insieme, cosa davvero singolare, idiosincratica e accogliente. Davvero, come ha visto Gezzi, queste poesie ci arrivano come uno schiaffo che è anche un abbraccio. Uomo tra gli uomini e tra le donne, dunque; o meglio, uomo tra quegli uomini e quelle donne, secondo un patto di umanità basica e fraterna che la sua poesia ha assunto fin da subito e mai più rinnegato: “e la mia figura si perde in tutte le figure / ora che inutilmente sforzo il cervello / per trovare la formula della mia persona / ora che non trovo nulla che io non abbia in un altro / e che un altro non abbia in me”

Roberto Galaverni, da “La Lettura” del 24/02/2019

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