Una vita da precario

Una vita contromano
“La flessibilità legalizza il lavoro nero”

La condizione precaria, a differenza della condizione operaia, non è stata ancora scritta. Non ha voce. Milioni di solitudini non fanno una coscienza di classe, non formano un linguaggio comune, non fanno sindacato. Ma accade che un Sindacato come la Cgil si impegni a dare identità politica ai precari.

Da una conversazione con Mohammed El Hassani, Segretario territoriale Cgil, emerge un indicibile malessere economico e forse – aggiungo – sopratutto esistenziale, riassumibili in quella veridica formula: MANCANZA DI FUTURO, che a dirla meglio e a capirla meglio è un ben fosco riassunto dello stato delle cose. Quello che si prospetta è un avvenire nero.

“A mio figlio dico: mettiti a studiare perchè il tuo lavoro probabilmente non è in questo Paese”

 

Siamo vuoti a perdere?

 Stanno precarizzando la precarietà. E’ matematica, non è pessimismo. Le spiego. Basta prendere la sua generazione, i nostri 30enni. Nella loro vecchiaia non avranno reddito e quindi non avranno capacità di spesa; non avranno pensioni (sarà quella sociale o poco più). Per garantire loro la pensione minima, lo Stato sarà costretto a spendere e, con il debito che ha, l’Italia fa bancarotta. Questa è matematica.

Sto preparando una ricerca. Ho preso in esame i neo 30enni di Senigallia e sono andato a vedere quanti anni di contributi hanno: mediamente hanno meno di 5 anni. Se questo andamento lo proiettassimo a distanza, se il trend dovesse rimanere invariato, questi nostri giovani arriveranno a 60/65 anni con al massimo 20/25 anni di contributi. Questo significa per loro: pensione minima, 510 euro al mese. La legge mi dice che se io lavoro 20 anni e arrivo all’età pensionabile, mi calcolano la pensione sui 20 anni che ho versato. Se, per ipotesi, risultasse una pensione di 400 euro mensile, l’Inps mi deve per legge integrare 110 euro per farmi raggiungere la soglia minima. Quando i giovani cominceranno a capirlo, inizieranno a non versare più i contributi. Con venti anni di contributi si arriva a 60 anni se donna e a 65 anni se uomo con una pensione di 600 euro. Versare ulteriori 7/8 anni di contributi o non versarli affatto diventa ininfluente ai fini pensionistici, ma pesa sul bilancio annuale delle loro vite instabili. Per lo Stato significa: Bancarotta.

 

Il terreno sotto i nostri piedi si fa sempre più inconsistente. Precarietà: forse non si è ragionato abbastanza su questa parola…nessuno vorrebbe una vita precaria, un lavoro precario,una casa precaria, un futuro precario. ..

 Tutto questo si sente, e molto, anche nel nostro territorio. Con una particolarità: la nostra è una zona votata al turismo. Sto notando un ricorso massiccio al “Contratto a chiamata” e all’assunzione attraverso il “Voucher”. Questa tipologia di modalità d’ingresso nel mondo del lavoro sta mettendo, ahimè, in crisi anche le statistiche, i numeri sui quali noi ragioniamo. Supponiamo che io, titolare d’A-zienda, stipuli un contratto – anche a due/ tre anni – ma che mi permette di chiamare il lavoratore solo quando necessario, questa persona nelle statistiche risulta occupata, ma nella realtà? Soprattutto il servizio stagionale è prevalentemente concordato su questa forma di assunzione. L’altra tipologia è il contratto/tirocinio, lo stage formativo. Non percepiscono salario, ma di fatto lavorano e producono reddito. Questi risulta disoccupato, anche se in realtà è occupato. Contraddizioni in termini. Può durare da 3 a 6 mesi, spesso con 8 ore giornaliere e spesso si parla di alti profili, di figure specializzate (sulla sua scrivania una pila di carte, tutti contratti/tirocinio avviati nella sola Senigallia n.d.r). Questo ha un riflesso sul significato delle statistiche. Ci sono elementi turbativi e siccome le statistiche nascono per fotografare una situazione e consegnarla a chi deve poi prendere una decisione, i dati sono alterati.

E’ un caso grottesco di instabilità e di indeterminatezza, ma tornare alla certezza di un posto di lavoro fisso è un’utopia

Noi come CGIL (le altre confederazioni hanno una opinione diversa) sosteniamo che è stata l’apertura del mercato del lavoro a forme di flessibilità così spinte a creare questa situazione. Il contratto a chiamata o il voucher o il tirocinio è per noi la LEGALIZZAZIONE PERMANENTE DEL LAVORO NERO, già insito nel meccanismo. Esempio: il datore di lavoro mi fa un contratto a un anno o due (ho visto contratti a chiamata a tempo indeterminato!) e mi mette in busta paga, a fine mese, le due giornate effettive in cui ho lavorato. Chi può vivere così? E’ chiaro che io prendo il resto in nero (senza contributi, senza le paghe contrattuali…). Inoltre ad aggravare la situazione c’è che è stato tolto agli organi ispettivi il controllo. Prima, se andava un ispettore del lavoro e trovava un lavoratore non assunto, sanzionava. Oggi, con il contratto a chiamata, il giorno di lavoro svolto risulta a fine mese. L’ispettore ha così un’arma spuntata. L’unica possibilità che ha è parlare col lavoratore e chiedergli se lavora tutti i giorni o meno…chiaramente questi non lo ammetterà. Non solo per paura, anche per convenienza. Non paga le tasse e non ha in cambio i contributi previdenziali della Pensione, ma – attenzione – mantiene tutte le agevolazioni previste legate al reddito. Forse casa popolare, esenzione dal ticket, annullata la retta della mensa dei figli…Assolutamente non voglio dire che sono i lavoratori che hanno creato questa situazione. Vorrei solo mettere in evidenza la legalizzazione di un sistema ingiusto: si può premiare colui che non ha diritto e si esclude chi effettivamente ne ha.

Ma esiste o non esiste in Italia una tipologia di contratto più o meno equa per il lavoro temporaneo?

 In Italia certe soluzioni ci sono. In Agricoltura, ad esempio. Funziona da anni. Supponiamo che io sia il lavoratore. Posso essere assunto dal 1 gennaio al 31 dicembre. Per tutte le giornate di lavoro l’azienda mi paga il corrispettivo sulla base di una tabella salariale concordata a livello nazionale. Le giornate che io non lavoro (causa maltempo ecc..) vengono accantonate e all’inizio dell’anno successivo posso fare domanda all’Inps affinchè mi venga riconosciuta la disoccupazione sui buchi che ho lasciato nell’anno precedente. Ecco: la coniugazione del reddito dell’impresa e il reddito che deriva dall’ammortizzatore sociale. Così, dignitosamente, riesco ad andare avanti. Se una donna va in maternità all’inizio dell’anno successivo, ancora prima che abbia il contratto di assunzione, se viene dal settore agricolo l’Inps le paga la maternità. (In tutti gli altri settori se disoccupata e va in maternità non le spetta nulla). Stessa modalità per la malattia. L’ ammortizzatore sociale, in questo caso, è confacente alla flessibilità offerta all’azienda. Se svolgo 156 giornate di lavoro l’anno, l’Inps mi mette i contributi previdenziali a coprire tutto l’anno e ho così interesse a denunciare tutto. Ma ha un difetto: l’accesso al credito. Nel caso in cui dovessi comprare casa perché le banche me lo considerano un contratto a tempo determinato.

 letizia stortini (scritto nel 2011)

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