A chi e a cosa serve l’intervento militare nel Niger?

 

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Georges Berghezan

trad. dal francese di Cesare Spoletini

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Cresce l’ostilità nei confronti della presenza militare occidentale nel Niger.

L’intervento “di posizionamento” in stile cavouriano dei nostri soldati in Niger deve confrontarsi non solo sugli interessi dichiarati e occulti di Francia e Stati Uniti, ma anche con la crescita dell’ostilità dell’integralismo islamico in un’area che prima del loro intervento non ne era toccata.

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Secondo molti osservatori, la presenza militare della Francia e, accessoriamente, quella degli Stati Uniti, si scontra con una crescente ostilità in vasti strati della popolazione nigerina. Tale ostilità si era già espressa con violenza nel gennaio 2015, quando, a seguito della pubblicazione delle caricature del profeta Maometto nel settimanale francese Charlie Hebdo, ci furono sommosse chiaramente indirizzate contro interessi francesi oltre a svariati luoghi di culto cristiani.

Secondo Antonin Tisseron (Quand la France ne fait plus rêver. L’exemple du Niger, Institut Thomas More) tale ostilità, costantemente rinfocolata da predicatori fondamentalisti musulmani, va oltre i fattori religiosi o sociali e e si innesta direttamente sulla la miseria e la disoccupazione di gran parte della popolazione. Secondo molti nigerini, la Francia penserebbe soltanto ai propri interessi a danno della sovranità del Paese senza alcuno sforzo di reciprocità. Il suo intervento militare nel Sahel non servirebbe a sanare le cause profonde di destabilizzazione della regione, ma ottiene solo l’effetto di mantenerla nel sottosviluppo. Inoltre, francesi e americani [e oggi italiani, ndt] mentirebbero sulle vere ragioni della loro presenza, ravvivando paradossalmente una continua violenza che si rivela funzionale ai loro interessi. Il caso della Libia, diventata fonte di destabilizzazione di un’intera regione dopo il cambio di regime operato dai bombardieri della Nato, costituisce senz’altro un solido argomento a suffragio di tale teoria, tanto più che il colonnello Gheddafi godeva di grande popolarità nel Paese. Allo stesso modo, Boko Haram e Aqmi (Al-Qaida nel Mahgreb islamico) servirebbero a scoraggiare qualsiasi investitore potenziale che non fosse statunitense o francese, particolarmente riguardo all’estrazione di uranio. Infine, per gli oppositori del regime, la recente rielezione di Mahamadou Issoufou, ai tempi del contestato scrutinio del marzo 2016, potrebbe proprio spiegarsi grazie al sostegno francese e, più genericamente, a quello degli occidentali.

 

Un’inchiesta condotta in ambito civile e integrata da domande rivolte a militari nigerini porta alla luce un diffuso risentimento per la territorialità violata e la convinzione l’intervento occidentale serva solo agli interessi di chi l’ha promossa senza alcuna reciprocità

Lo studio di Tisseron si fonda essenzialmente su interviste, pareri e manifestazioni dei civili. Abbiamo voluto completarlo interessandoci anche all’opinione di qualche membro delle forze armate; pareri tanto più interessanti da scandagliare in quanto questi militari hanno spesso affiancato personale militare francese e statunitense. Il ritorno dei militari francesi nel settembre 2010 e il mantenimento della loro presenza nel Paese, anche dopo l’abbandono dell’opzione di liberare ostaggi mediante azioni armate, aveva suscitato le proteste pubbliche di almeno un ufficiale superiore.

Tuttavia, simili atteggiamenti di contrarietà sono rari fra i militari nigerini, come d’altra parte lo sarebbero in tutti gli eserciti. Per saperne di più, quindi, abbiamo deciso di interrogare un piccolo campione scelto nelle forze di sicurezza del Niger circa i sentimenti suscitati dalla presenza militare occidentale nel loro paese.

Un campione costituito da 20 membri delle forze di sicurezza: 19 delle Forze armate nigerine (FAN) e uno della Guardia nazionale del Niger, unità paramilitare, questa, dipendente dal Ministero dell’Interno, particolarmente preposta al mantenimento dell’ordine e della protezione delle autorità. Fra costoro, sono stati interrogati quattro ufficiali, sei sottufficiali e 10 soldati. Le interviste sono state realizzate individualmente da un membro della società civile nigerina nelle lingue francese, haussa, zarma o kanuri.

Le domande formulate erano direttamente inerenti il sentimento degli intervistati circa lo sviluppo della presenza militare della Francia e degli Stati Uniti, così come degli altri possibili sostegni esterni alle forze di sicurezza nigerine.

Le risposte ci hanno sorpreso per il loro carattere schietto e drastico. Riguardo alla presenza dei militari francesi, gli intervistati hanno risposto, a larga maggioranza, di essere “decisamente a sfavore” (in 17) o “piuttosto a sfavore” (solo 1). Gli altri due hanno espresso un parere “incerto”. Fra i motivi di tali opinioni primeggia di gran lunga la “lesione della sovranità nazionale”, immediatamente seguita, in seconda battuta, dall’ “inefficace sostegno”. Inoltre, dai commenti emessi, molti ritengono che la Francia pensi solo ai propri interessi; qualcuno la sospetta di mentire sulle sue espresse intenzioni, se non proprio sulla complicità con i terroristi, che contribuiscono all’instabilità o all’aggravamento del conflitto (“come pompieri che venissero a spegnere il fuoco con getti di cherosene”, secondo un capitano). In diversi hanno lamentato che la Francia non condivide mai nessuna informazione raccolta sul terreno con le forze nigerine o, anche, la reticenza da qualsiasi intervento nei momenti critici. In due hanno dichiarato, più o meno apertamente che essa, così facendo, protegge il regime inchiodato al potere. Nel quadro generale, “smarrimento, “delusione” e “amarezza” serpeggiano fra questi militari.

Gli intervistati sono stati un po’ meno categorici riguardo alla presenza militare statunitense nel Niger. Nondimeno, per quest’ultima, a grande maggioranza si dichiarano “decisamente a sfavore” (in 15) o “piuttosto a sfavore” (solo 1), “incerti” (in 3). “Piuttosto a favore” solo uno, che tuttavia evoca la “protezione dell’integrità territoriale”. Quanto agli altri, in parti pressoché uguali, lamentano una “lesione della sovranità nazionale” e un “inefficace sostegno”. Dai commenti raccolti, sono in tanti a porre Francia e Stati Uniti nel medesimo canestro, per le medesime ragioni. In due sono dell’avviso che gli americani stiano continuamente lanciando “falsi allarmi”, mentre uno li considera “meno altezzosi” dei francesi. Uno dei tre esprime un parere “incerto”, lamentando l’opacità della presenza statunitense.

 

Il benvenuto dei governanti nigerini, imposti col favore dei governi occidentali, non riesce a rendere convincente e gradita la presenza militare occidentale

Alla fine delle interviste, a grande maggioranza, 18 dei 20 intervistati sono convinti che la difesa del territorio nigerino e la lotta contro il terrorismo possano essere assicurate dalle forze armate nigerine. Gli altri due considerano che queste dovrebbero essere spalleggiate da forze armate africane o da una forza della CEDEAO (Comunità economica degli Stati dell’Africa Occidentale); ma in nessun caso da interventi di Stati occidentali.

Benché gli intervistati costituiscano un infimo campione rispetto ai 10.700 membri delle forze di sicurezza nigerine, questi risultati concordano con le osservazioni e le analisi sviluppate da Antonin Tisseron su tutta la società nigerina. Inoltre, dimostrano che, nonostante la moltiplicazione dell’istruzione e delle esercitazioni congiunte, fra i militari nigerini serpeggia una profonda sfiducia nei confronti dei colleghi occidentali. D’altra parte, lasciano intuire che le attuali autorità nigerine si trovino alquanto isolate nel loro apparente sostegno entusiastico alla presenza militare occidentale. A dimostrarlo: la rapida e concitata conclusione dei negoziati relativi all’arrivo di personale e droni statunitensi in quel di Niamey, nel 2013, o il recente discorso del presidente Issoufou in favore d’un rinforzo dell’operazione Barkhane. In un paese che ha sopportato quattro colpi di Stato militari dal giorno della sua indipendenza, tale differenza di vedute rispetto all’atteggiamento piuttosto dissidente delle forze armate nigerine, apparentemente maggioritario, dovrebbe seriamente inquietare la classe politica al potere.

 

Sopra tutto è il sospetto che occidentali e jihadisti, pur avversi, condividano l’interesse per la diestabilizzazione del paese subsahariano come già accaduto in Libia

Un simile risentimento rivolto alla presenza militare occidentale dovrebbe preoccupare le autorità francesi e statunitensi, sia sul piano della sicurezza del loro personale presente nel Niger, sia sul prosieguo della loro collaborazione con tale Paese. Che siano formatori, istruttori, consiglieri, operatori ai droni, piloti, tecnici, membri delle forze speciali o agenti dei servizi d’informazione, questi attori d’una globalizzazione della lotta senza precedenti, contro gruppi armati ispirati dal wahabismo, hanno stravolto il paesaggio africano, in pochi anni.

Questa mutazione è avvenuta senza il consenso dei principali interessati. Innanzitutto, il jihadismo non è necessariamente percepito come impellente minaccia dalla maggior parte della popolazione, costretta ad affrontare ben altre fonti quotidiane d’insicurezza. D’altra parte in un Paese che ha vissuto la colonizzazione come un’umiliazione, il ritorno di centinaia di militari francesi, dopo oltre trent’anni d’assenza, e l’arrivo di soldati statunitensi, hanno profondamente indignato ampi settori della pubblica opinione. Questa sostanziale parte della popolazione considera che tale presenza sia un colpo inferto alla sovranità del paese, motivata da interessi totalmente estranei al Niger; un’intrusione che rinfocola senz’altro le crisi che scuotono la regione. L’intervento in Libia, dove Francia e Stati Uniti hanno rivestito un ruolo preponderante, induce tanti nigerini a considerare l’Occidente interessato a fomentare il caos in modo da giustificare la sua presenza dominante sulla vita della regione.

 

Sono pochi i risultati concreti che possano giustificare l’intervento presso la popolazione nigeriana. Per esempio, questo paese che non aveva conosciuto gli attacchi di Boko Haram, adesso li subisce giornalmente.

Inoltre, la costante situazione d’instabilità del Mali e la persistenza minacciosa di Boko Haram alimentano forti dubbi tanto sull’efficacia dell’operazione Barkhane quanto su quella dei mezzi di sorveglianza e d’intelligence dispiegati dagli Stati Uniti. Dall’inizio dei programmi antiterrorismo messi in opera nel Sahel da queste forze, le formazioni jihadiste si sono costantemente moltiplicate guadagnando sempre maggior importanza, allorché il Niger non si era mai trovato alle prese con Boko Haram, prima dell’operazione Barkhane.

A meno dell’ottenimento di risultati rapidi e concreti nella lotta contro i movimenti jihadisti, una persistente diffidenza rischia di provocare incidenti coinvolgendo gli occidentali, civili e militari, stabiliti nel paese. Se gran parte di tale ostilità deriva dalla persistenza di rapporti squilibrati fra Nord e Sud, specialmente nel campo dell’economia, alcune misure d’ordine militare potrebbero essere intraprese per attenuarla. Per esempio, Parigi dovrebbe associare effettivamente alcuni militari degli Stati appartenenti al G-5 Sahel al comando di Barkhane, dando prova di equamente condividere le informazioni raccolte dai suoi agenti e dai mezzi d’osservazione. Parigi, inoltre, dovrebbe fissare alcune scadenze terminali a tale operazione, fra le quali un programma di disimpegno e lo smantellamento delle basi “temporanee”. Identiche raccomandazioni potrebbero essere rivolte a Washington che, in prima fase, dovrebbe rimuovere quel velame opaco che maschera la reale estensione delle proprie risorse umane e materiali dispiegate nel Niger.

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