IL MARE E’ CAMBIATO DENTRO

La causa della morte del mare Adriatico è il troppo sfruttamento?

 

giornata mondiale dell'acqua
L’onda di Hokusai, 1830-31

 

di Leonardo Badioli

Eppure ancora nel 1926 Umberto d’Ancona, intervenendo in una discussione a proposito di impoverimento del mare1, si trovava a dover contrastare l’opinione inveterata di certi suoi colleghi i quali ritenevano che i pesci, come le stelle del cielo, fossero innumerabili e, in quanto risorsa, inesauribili.

Il suo assunto era invece che la pesca eserciti un’azione tutt’altro che trascurabile sulla fauna ittica; e lui lo poteva sostenere perché aveva esaminato i dati del pescato negli anni della Grande Guerra e in quelli immediatamente successivi. Durante il triennio bellico le barche pescherecce non erano uscite dal porto perché gli uomini validi si trovavano al fronte e le acque del nord Adriatico direttamente coinvolte nel teatro di guerra. In compenso il fermo prolungato aveva dato luogo a un ripopolamento senza precedenti della fauna ittica. Non però uniforme: il numero dei predatori apicali (come squali e razze) era aumentato grazie al minore sfruttamento del mare ed alla ridotta cattura delle specie di cui si alimentavano; successivamente, le prede avevano cominciato a loro volta a ridursi di numero a causa dell’accresciuta predazione. Di queste osservazioni D’Ancona parlò a suo suocero Vito Volterra (lui sì anconetano: D’Ancona era nato austroungarico, a Fiume) il quale mise a punto le equazioni con le quali viene definita la dinamica delle popolazioni ittiche all’interno del rapporto tra prede e predatori. Queste formulazioni, conosciute come “equazioni di Lotka-Volterra”, sono tuttora alla base di ogni teoria ecologica quantitativa2. Loro chiamavano la via intrapresa “biologia esatta”.

Ottantacinque anni dopo  il quotidiano la Repubblica dedica una pagina intera alla rarefazione di molte specie di pesci tra quelle  che hanno sempre fornito quantità e qualità alla pesca adriatica3. “Il mare è cambiato dentro”, dichiara al giornale Tonino Giardini, pescatore-armatore di Fano: “Sembra che sia diventato sterile.  Abbiamo avuto una caduta verticale di dimensioni mai viste negli ultimi trent’anni: quasi tutte le specie sembrano scomparse, tanto che ogni volta torniamo con le reti quasi vuote”.

Per lui è dunque un nuovo evento, questo, che le specie tutte insieme  vadano riducendosi e scomparendo, e non un fatto ciclico entropicamente indipendente: “Succede ogni anno di non riuscire a pescare una specie o l’altra. Non trovi i calamari, ad esempio, ma porti a casa le triglie o le alici”. Più o meno la stessa considerazione di D’Ancona quando dice che “basta consultare le statistiche della pesca per capire che non c’è pericolo di confonderle con le oscillazioni dei massimi e dei minimi che ricorrono alternativamente”.

Lo spazio temporale che separa i due osservatori contiene agevolmente  quello in cui la pesca si trasforma da attività pressoché artigianale e alimentata da energie “rinnovabili” (vento e braccia) in una impresa industriale che utilizza una meccanica potente e un’elettronica capace di intercettare fino all’ultima acciughina. Simbolicamente, però, i due momenti sono uniti da un segmento i cui estremi potremmo indicare con un alfa e un omega.

Vediamo. Il biologo D’Ancona dice che la pesca condiziona profondamente la vita del mare o quanto meno le relazioni tra le viarie specie. Fino a disorganizzarle?  I ricercatori del Laboratorio di Biologia Marina di Fano, che studiano le zone di inquinamento e gli effetti dei mutamenti climatici,  gli danno implicitamente ragione: secondo loro “l’impoverimento è comunque dovuto in larga parte alla pesca troppo intensa”. E ne indicano anche il motivo: “Adesso arrivano grandi barche che con le loro reti con catene enormi arano il fondo del mare e lasciano solo blocchi di fango”. Stiamo  dunque arrivando a un punto estremo della disorganizzazione?

In realtà la rarefazione della fauna ittica non è un dato soltanto moderno: già nella seconda metà del Settecento si lamentava l’eccessiva intensità della pesca, specialmente sottocosta, e vi si rimediava con proibizioni e con limitazioni da parte delle autorità delle città rivierasche4; mai però si era affacciata al pensiero l’idea che l’intero mare Adriatico potesse risultarne totalmente deprivato. Francesco Fornaciari, per esempio, ardente e sciagurato giovanotto senigalliese che fa parlare di sé in un racconto criminale edito nel 1789, a un certo punto “si rende conto che non gli conviene continuare a pescare lungo la costa prospiciente Senigallia, affollatissima di pescatori; decide quindi di portare le sue paranze nel golfo del Quarnaro, nei pressi di Fiume, dove, a quanto ha sentito dire, il mare dà pesce in abbondanza e ci sono pochi pescatori”5.

Oggi invece è possibile pensare che un’attività di prelievo troppo intensa  sia in grado di disorganizzare la catena trofica al punto che ne consegua la  “morte del mare”6; anzi, il fenomeno è stato già variamente descritto come scenario globale in vari centri di ricerca: dall’overfishing dipenderebbe la prospettiva della scomparsa della maggior parte delle specie ittiche commercialmente apprezzabili entro un tempo prevedibile: entro il 2040 secondo ripetute previsioni.

“Sappiamo che all’interno dell’ecologia più grande e più duratura ci sono sottocicli di vita e di morte”, scriveva Gregory Bateson in Mente e natura7; “ma che dire della morte del sistema più grande?”. A partire dall’ultimo quarto di Novecento la morte incombente del mare, ossia non di un sottociclo ma del sistema più grande, viene di volta in volta riferita all’inquinamento, alle fioriture algali, alle mucillagini e in generale all’ipossia del fondo e ai cambiamenti climatici, più ancora che non all’incessante prelievo che ne viene fatto da parte dell’industria ittica.

E’ probabile che tutte queste siano concause, che attivano anche coeffetti ritardanti o moltiplicatori. Sul piano scientifico, la diversificazione delle scienze ecologiche, insieme con un utilizzo sempre più ampio dell’approccio quantitativo introdotto dalla modulazione matematica di Volterra, ha condotto da una parte a una moltiplicazione dei punti di vista osservativi, dall’altra all’aggregazione complessiva di flussi di informazioni di diversa provenienza. Così Roberto Danovaro, dell’Università Politecnica di Ancona, che aveva nel 2007 paventato la morte del mare applicando all’Adriatico la teoria del “nastro trasportatore”, è entrato come unico rappresentante italiano nel programma Census of Marine Life8, il primo vero censimento generale delle popolazioni ittiche, impresa mondiale di proporzioni colossali che gli verrà però facilitata, almeno per quanto riguarda l’Adriatico, dalla rarefazione del suo oggetto.

Visto nel suo sfondo, il nostro mare è un teatro biologico attorno al quale si raccolgono da lungo tempo attori e spettatori, con una continuità temporale e per una complessività tematica che oggi lo pongono al centro di una attenzione molto estesa. Sarà possibile forse in questo modo combattere una certa shifting baseline syndrome9 che, così definita proprio in ambito marino, rappresenterebbe la dimenticanza che ha ogni generazione della base di naturalità precedente e, nel caso specifico, la conseguente perdita di riferimenti per un possibile paradigma naturale di ciò che noi chiamiamo  “mare”10.

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1 Umberto D’Ancona, A proposito di impoverimento del mare e di equilibri biologici. Rivista di Biologia, 8, 1926, pp. 781-785 .

2 Umberto D’Ancona, La lotta per l’esistenza, Einaudi 1942, dove l’autore esplicita e inquadra teoricamente le equazioni tracciate da Volterra. Un libro straordinario, sia per il modo in cui D’Ancona prende per mano il lettore non versato nella matematica, sia per le difficoltà connesse alla pubblicazione a causa dell’ebraismo dell’autore (la prima edizione, voluta da Ludwig von Bertalanffy, era del 1939; uscì in lingua tedesca, addirittura a Berlino, quale primo fascicolo delle Abhandungen zur exacten Biologie); sia soprattutto per la chiarezza con cui vengono poste alcune basi dell’odierna ecologia scientifica.

3 Jenner Meletti, Aiuto, si è spopolato l’Adriatico, La Repubblica, lunedì 28 marzo 2011, p. 41.

4 Si veda ad es. Lucia de Nicolò, Ricerche sulle tecniche piscatorie fra Marche e Romagna nei secoli XVII e XVIII, in Atti e memorie della Deputazione di Storia Patria delle Marche p. 337, nota dall’Archivio di Stato di Rimini, Informazioni 1775-1781).

5 Anonimo, De Fornacciari conjuratione commentarius, 1989, trad. di Licia Badioli, pp. 5-6.

6 Si veda ad esempio M. Stachowitsch, Mass mortality in the Gulf of Trieste: the course of community distruction, P.S.Z.N.I., Mar Ecol., 5 (3), 243-264, 1984. “Non ci può essere uno sviluppo che vada al di là di impoverite comunità di transizione quando i disturbi sono più frequenti del tempo necessario per un completo recupero”.

7 Gregory Bateson, Mente e natura, Adelphi, 1984, p. 274.

8  Per gli aspetti generali del Censimento della Vita Marina si può vedere www.coml.org/about-census.

9 Matteo Rossini, che ho consultato come rischio positivo delle mie scarse conoscenze, propone di tradurre in italiano “sindrome da slittamento/cambiamento della base”, scusandosi però che si tratta di un termine un po’ fuori dai suoi studi. In ogni caso, vedere www.shiftingbaselines.org.

10 Per esempio, a proposito della torpedine: “L’esito più probabile è l’accettazione della mutilazione e l’uscita della torpedine dalla comune esperienza del mare”. “Così ci siamo dimenticati della torpedine e, dimenticandoci che c’era, ci siamo dimenticati di desiderare che ci sia ancora”, Leonardo Badioli, Raja torpedo, ed. Minardi, 1995, p. 206.

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