(Sagittario)

(Sagittario, 22 novembre – 21 dicembre)

di Leonardo Badioli

Un giorno Ermete, che era assai burlone, si presentò all’Olimpo conducendo con sé uno strano personaggio: un ometto bassotto e storterello, con corna ricurve di capra, barba di capra, zampe e coda sempre di capra, insomma, un caprometto non più alto di un metro e quaranta. In un momento li ebbe tutti intorno, le dee specialmente.

“Dove l’hai trovato?” chiesero chinandosi per esaminarlo.

“Quant’è carino”, trovò qualcuna.

“E puzza un po’”. 

“Questo qui”, enfatizzò Ermete dopo aver lasciato tempo alle varie congetture, “è un amico mio, perciò trattatelo bene. Non è da sottovalutare, da nessun punto di vista, care signore”.

“Ooooh”, fecero quelle fingendo di non essersi accorte.

“Inoltre”, proseguì Ermete allegramente, “questo essere è dotato di viva intelligenza, pur non coltivata. Ma non è colpa sua: appena partorito la madre l’ha visto così brutto che è scappata via a gambe levate. Per questo è un po’ ruvido nei modi: non ha la vostra educazione, ecco tutto”.

“Allora facci vedere cosa sa fare”, disse Apollo bello e saccente come non mai. 

Ermete mostrò tra le dita una fila graduata di canne leggere e soffiò dentro traendone un suono un tantino sfiatato. “Ha inventato lo zufolo, tanto per gradire. Forza amico mio, raccontagli come hai fatto a inventarlo”.

“Nonnè che ciò fatto a posta”, prese l’essere a raccontare con finto imbarazzo. “M’è venuo alluscì. An certo punto che stacevo a fa la fuga a una, che non la chiappo mai perché so brutto molto bè, per quelo che me sgappa sempre, m’è sgappàa ntra mezzo a le canne, e io ntra mezzo a quele canne non ce capìo più gnè, e digo mbè ndó sarà gìo sto diàolo? Cerca che te cerca ‘n c’era in velle da nisciuna parte, alora me so ffermào nten cannedo che ero stracco morto. Sento a move ma gnente, era ‘l vento che fischiàa e movea i calami, per deéro, le punte de le foie, ziu ziu ziu ziu, ognuna canna un sono diferente. Me so messo assède e digo mbè fammece provà ancora a me. Tiro via du’ tre cime, ce soffio drento e vène fori quel sono fino de prima, ziu ziu ziu ziu, que è que non è, me so ‘nventao lo zufolo, ello”. 

Apollo lo guardava estasiato. “Dammelo”, disse, “fammi provare”.

“Eh no”, si interpose Ermete, “l’amico è mio con lo zufolo e tutto. Tu accontentati della cetra che t’ho venduto qualche tempo fa, e se ti va potrete fare un concertino; ma ho paura che il suo modo di suonare non ti piacerà, un po’ troppo scomposto e rumoroso per orecchie coltivate come sono le tue”.

L’interesse però era generale. 

“Teniamolo quassù nell’Olimpo”, fecero gli dei in coro. 

“Ci farà compagnia. Per quanto…“

“Vuoi dire che sporca?” 

Imbarazzato e impudente, il capruncolo ne fu lusingato ma declinò l’invito. “Io nde i posti commo questi non ce so sta”, disse infine torcendosi le mani; “e po’ per dì la verità manco me gusta a stacce”. Ma aveva l’aria di uno che che capisce quanti giri fa una boccia. “Voialtri sede troppi belli e tranquilli, mentre che io so gnorante un gran bel po’, e tante le volte so pure esagerao, fo notte e al dopomagnào armàno addormì sotta na pianta, e si me danne fastidio capace me pia pure del tristo”.

Rideva convulsamente per quella semplicità troppo esibita, mentre gli dei ammiravano tra divertiti e intimoriti quell’assoluto naturale. Solo Dioniso, che tra loro era l’ultimo venuto e non amava amalgamarsi con l’ambiente olimpio, mostrava un sorrisetto competente. La compagnia degli dei in effetti l’annoiava, e quel capruomo misterioso e sboccacciato lo riportava a luoghi meno olimpici del sacro monte. Ritrovava quello strano linguaggio, antico e sonnolento, che al capro veniva dalla compagnia di Stafilo suo figlio, (Staffolo je dice qua) dai tempi in cui il tralcio s’era impiantato in quelle terre di Enotria dove sanno spillare vino buono. Pan era dei suoi. C’era sempre nelle feste quando, fradici dalle bevute, i satiri saltavano smenando le loro code mozze in mezzo a canti e risate di furbizia animalesca o di ebete spossatezza; le pance pelose ballavano al ritmo dei cembali e le Menadi scrollavano le chiome in torsioni violente e spiritate. Sileno ondeggiava sul suo somarello sputando sentenze e parolacce, e tutti erano presi da foga irragionevole, da libero entusiasmo. E c’era sempre Pan quando, con gesti esagerati, la compagnia inventava cortei buffoneschi mimando gli eventi umani con risa sgangherate e replicando con gesto triviale il dolore che gli uomini e le donne, al pari dei piaceri, sono soliti nascondere alla vista del mondo. Profano era colui che non capiva il senso divino delle scene del capro. Dioniso stesso guidava la compagnia di villaggio in villaggio. Era ben accolto, per giorni era padrone assoluto.  Non gli permettevano però di insediarsi per sempre. Ogni cosa a tempo e luogo, dicevano i vecchi, e secondo calendario; ma ogni tanto era pur necessario dare libero sfogo alla vitalità, mentre le autorità chiudono un occhio o mettono le mani avanti organizzando direttamente le feste: se si smateria un po’, per i canali dov’erano alvei vuoti irrompono le piene di fraternità inaspettate, e si può uscire da se stessi ed essere per un momento tutti e chiunque. Quella voglia di sfogarsi che si faceva preghiera Dioniso la sapeva eterna, la vedeva invadere le età future, entrare nelle discoteche e negli stadi; il mondo esigeva sobrietà ma non poteva impedire un po’ d’ebbrezza. Finché si tentava l’impossibile conciliazione le cose andavano passabilmente; se una parte prendeva il sopravvento, però, erano guai. Non c’era serenità senza un po’ di disordine, né allegria senza una giusta misura. Il mondo si riempiva la bocca di buoni propositi, i semafori funzionavano ventiquattr’ore al giorno, i frigoriferi chiudevano bene, i virus dei computer erano fronteggiati bravamente e le tavole apparecchiate all’ora giusta, ma l’estrema perdizione era sempre nascosta dietro ogni angolo e sotto ogni mensa nel fragore del crollo o nella quiete di reazioni perfette, e nessuno sapeva spiegarsene la vera ragione. 

Una cosa appariva a tutti chiara: non è permessa un’ebbrezza permanente, perché avrebbe guidato la creazione, il gesto improvviso e l’entusiasmo troppo lontani dalle concrete vie di salvezza; al punio che poteva perdere chi la seguisse interamente in un’insania senza ritorno. A che serviva allora che i cavalli si lanciassero al galoppo se non trascinavano con sé l’opaco ingombro degli impedimenti così indispensabili al vivere d’ogni giorno? Cosa si direbbe a uno che si attarda a rovistare se c’è ancora qualcosa da mangiare? La vicinanza che si trova nella comune sventura, o nella irragionevole sgrigna che a volte ci contagia, si sarebbe persa se si fosse preso il gioco troppo sul serio.

Nei pomeriggi di quiete campestre Pan sprofondava in sonni corpulenti mentre intorno ogni cosa era immobile e una trama sinuosa di cicale avvolgeva ogni cosa vivente e l’irretiva nell’abbandono. Le ninfe delle fonti, dei boschi, delle montagne riposavano tra le foglie nei luoghi che la loro presenza rendeva sacri e inviolabili. Scappavano quando il capruomo al risveglio le inseguiva con intenti più o meno pornografici, si fermavano quando l’inseguimento cessava, irritate o divertite secondo carattere e ispirazione.

Fu così che la ninfa Eufeme raggiunta da Pan generò un figlio che chiamarono Croto. Non era certo più bello del padre, e ne portava intera la natura selvatica; ma la madre di suo gli aveva dato una certa grazia, una gentilezza che sapeva guidare quella sepeggiante furbizia caprina verso il piacere dell’arte e della conoscenza.

Da tempo Eufeme soggiornava stabilmente sul monte Elicona, dove le Muse erano ancora bambine. Le aveva allattate e le curava tutte e nove con affetto e premura come fossero figlie sue, e il ragazzo, o meglio, il caprazzo, che le era figlio davvero, cresceva insieme a loro come fratello e sorelle: giocavano, imparavano insieme, e l’incrocio tra le conoscenze e la natura selvatica di Croto produceva effetti sorprendenti. 

Con Calliope il figlio di Pan imparava storie di eroi e di avventure; con Tersicore qualche passo di danza;  Clio raccontava vite e fatti di epoche lontane; Polinnia lo sfidava in gare burlesche di imitazione e di mimo;  con Euterpe l’alunno suonava il flauto e con Erato organizzava cori armoniosi; con Talia recitava commedie e con Urania scrutava le stelle. Melpomene era severa e incline alla tragedia, ma proprio quelle vicende di passione e sofferenza, l’amore, il tradimento, il destino, la morte, il riscatto dalla morte risolvevano la sua parte selvaggia, attraverso la rappresentazione, nella serenità.

Al termine della recita Croto era emozionato, si agitava e batteva le mani. Mai nessuno l’aveva fatto prima e, un po’ per canzonarlo, un po’ per emularlo, tutti cominciarono a battere le mani. Se Pan aveva inventato lo zufolo, il figlio Croto inventò gli applausi.

Il nome, in effetti, vuol dire proprio questo: “applauso”. Quando poi, crescendo, le Muse appresero che Croto non era che il loro fratellastro, ci restarono male: era un vero peccato che a quel vivace compagno non toccasse la stessa fortuna immortale che spettava a loro.

“La sua simpatia mancherà agli uomini non meno che a noi”, osservavano spesso, pensose, “una volta che Croto non ci sarà più.”

“E allora, padre Zeus”, pregarono in coro, commosse a quel pensiero: “fallo brillare per sempre”. 

“Dagli forma di cavallo, “chiese una, “ perché possa correre con la fantasia”.

“E frecce per colpire i bersagli più lontani”,  aggiunse un’altra.

“Lasciagli però qualcosa dell’aspetto caprino che lo rende così simpatico”. 

“E tra le zampe davanti ponigli una corona d’oro”.

Zeus volle accontentarle tutte e nacque così il Sagittario. Ecco perché la sua figura sembra il risultato di un montaggio. Apollo e Dioniso furono i più contenti delle nuove stelle, perché ciascuno ci trovava le qualità migliori: un incrocio apprezzabile di follia creatrice e serena riflessione in una sola figura. Il grande Pan non sembrò troppo entusiasta della trovata: parve infine distratto, rassegnato e non molto convinto.

“Po sta che passa lo riso e no la broda?“, lo sentirono che brontolava; ma non furono in tanti a capire. Capiranno dopo, quando si accorgeranno quanto è difficile mettere insieme il riso di Dioniso con la broda di Apollo, cioè la voglia di rompere le righe col desiderio di trovare nella misura la verità delle cose.

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