Beatrice Bolletta

carboncino

Curioso quante cose si riesce a dire davanti a un’opera figurativa. Quasi non
bastasse quella a spiegare se stessa.
Qui ci sono tre cose: la persona Beatrice che sente, immagina, vede, isola,
desidera, sceglie, accoglie, raggiunge, stringe, respinge, gusta e disgusta,
trasforma e genera: ci siamo noi di fronte alla forma sentita, immaginata,
vasta, isolata, desiderata, scelta, accolta, raggiunta, stretta, respinta, gustata e disgustata, trasformata e rigenerata, di fronte al riflesso meditato dell’opera conclusa.
In mezzo uno specchio bifocale nel quale cerca spazio l’atto creativo, quello
che l’autore – l’autrice – intuisce e determina in un unico gesto e noi
spettatori proviamo a spiegare, a dispiegare come si fa con le cose che hanno un nucleo ripiegato e composto, per esempio una tovaglia o un lenzuolo: il soggetto che si fa oggetto, l’immagine che si immagina, la figura (da intendersi nel senso originario del fingere – non un “fare finta” ma piuttosto un “plasmare”) che segna il differenziale dell’arte.
Distinguiamo tre modi nel tratto pittorico di Beatrice: carbone, sabbia,
pastello. Non tecniche: modi. Il primo e il terzo propriamente figurativi, il
secondo incline all’astratto (e anche qui “astratto” da abstraho, “tirare via”).

Di ognuna tentiamo una ricostruzione.

Processuale: la qualità della materia è l’elemento concreto (affine a “con-
crescita” meglio che a “concretezza”); quando è sabbia (concrezione) si fa mappa del sogno genera la figura umana (come sua es-crescenza) e presagisce un ritorno all’informe.
Sensoriale: i pastelli hanno consegnato alla figura colori sensibili e caldi
quali né olio né acrilici avrebbero potuto; la sabbia fornisce lo spettro
coloristico più ampio – lo studio di Beatrice è pieno non di tubetti e di
pennelli, ma di sabbie da ogni parte del mondo -. La sabbia è origine,
strumento e meta: non si finge altro. Sopra le campiture di carbone
brillavano leoni e leopardi come arazzi di polvere; ormai spenti, i personaggi del dramma sono forme non sostanziali che accettano consapevolmente di dissolversi nel tempo.
Semantica: fuori dall’assiomatismo “vista uguale verità”, la figurazione nel
suo farsi sembra non avere scopi; si risolve in sé attraverso procedimenti non discontinui tra lo spargere la materia, consolidarla con la colla e creare senza mediazione di strumenti il suo sognato alone; oppure, sempre consumandosi le dita, consegnare alla macchia umana la stessa fugacità della fotografia.

Lei dice: “In queste figure non c’è niente; non doveva esserci niente, le
persone sono chiuse, gli occhi un taglio nero. Siamo noi, siamo ognuno di
noi; la postura che dicono ansiosa a me pare ormai spinta oltre la soglia
dell’ansia, completamente vuota” – e questo suo reclamare il vuoto divora
ogni eccesso verbale che pretenda significati espliciti e denotativi: in fondo
le parole sono una forma elaborata di prensione: de-finiscono, quindi
chiudono; con-prendono. Quindi sequestrano, depotenziano, scongiurano.
Curioso allora scoprire come riusciamo a restare silenziosi. Può essere la scelta migliore: esporsi al messaggio visivo come quello si espone a noi,
senza troppe traduzioni in altro codice. Replicare l’azione figurativa e
completarla con la nostra corrispondente. Lasciare che le immagini mentali
agiscano su tutti i piani che la ricezione consente. Lasciare
all’indeterminazione tutto ciò che le appartiene. La pittura di Beatrice Bolletta.

Leonardo Badioli

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