Lo incontravo di solito al sabato mattina al Bar Frank lungo la statale, appostamento per la sosta dei migranti e arca sacra ai valori di periferia; stamattina lo trovo in questo bar del porto, vagabondo, perché ha avuto nella notte una colica intestinale e per questo non è andato a lavorare. Vecchio amico Ermanno, uno dei migliori furfanti che conosca. Generoso fino alla rovina. Glielo dico, lo so che gli piace. Lui mi tiene sottobraccio e punta il dito in direzione del bancone, come Marcantonio sul cadavere di Cesare: – Prendi quello che vuoi. Offro io. – E si mette a spiegare, mimando una maschera tragica, come funziona una colica intestinale. 

– E quello lì?

– È la mia compagnia. Vecchiotto, ha una dozzina d’anni; più avanti va fuori garanzia e tutto il resto che viene è regalato. Ma sta bene, deve solo camminare per tenere su il tono muscolare. Come me, d’altronde. Una cosa ti vorrei chiedere, dato che ti trovo qui: hai mai dipinto il porto? Una volta mi hai detto che ci lavoravi.

Nemmeno mi sente, tutto intento a rifilarti una brioche, un pezzo dopo l’altro; poi mi agguanta di nuovo per un braccio e mi tira vicino come uno che si vuole confidare. 

– L’hai vista la Cinesina?

– Io no, quale cinesina?

– La macchina nuova. Come hai fatto a non notarla entrando? Mercedes del sessantanove. Cinesina è il nome. Andiamo fuori. Guarda le cromature. Guarda il cruscotto. Guarda il cambio sportivo. La meccanica è tutta originale. Adesso dimmi quanto l’ho pagata. 

Butto là una cifra contenuta perché credo intenda dire che l’ha pagata poco. 

– Di meno. Di meno. Di meno. 

Mi arrendo.

– Mille euro tondi l’ho pagata. Ancora non l’ho detto a casa.

Tutti e due facciamo un passo indietro e ci immergiamo nell’ammirazione di una macchina nuova del sessantanove che è costata così poco. Veramente bella.

– Il porto vieni qua: te lo dipingo a voce. Ci ho lavorato, sì, all’escavazione; poi ho fatto il portiere di notte; adesso magazziniere. “Faccio” il magazziniere, non “sono”: un mestiere non ci può definire. Ma che roba il portiere di notte. Nelle sere d’inverno c’era spesso qualcuno che non trovava la via del letto: chiedeva un cognachino e si metteva a parlare delle cose sue, eh, Ermanno, tu sei un uomo di mondo, tu capisci le cose, amico mio, fratello; e io stavo a sentire come può fare un prete nel confessionale, che però alla fine non dà assoluzioni e nemmeno penitenze. Ognuno ha una storia, più storie, casini, gente che ha due famiglie all’insaputa l’una dell’altra, con figli, e va avanti così da vent’anni; gente che vuole le donne e non le può avere ma le vuole lo stesso; e raccontano, e ridono, e piangono, e poi la mattina seguente li vedi che scendono tutti compunti, buon giorno, mi prepari il conto, e ripartono per la loro vita incasinata, una trama che si fa da sé, senza espressa volontà di chi la tesse, senza una guida che non sia sempre lo stesso inesorabile copione.

– Perché io sono un mago, – continua lisciandosi la barba e lasciandosi guidare dai pensieri: – capisco le persone. È morto il pittore Marinelli, hai saputo? Il pittore delle marine. Lavate, delicate, quasi una maniera. La chiesa tutta piena e il figlio che mi dice sottovoce: “Non c’era abituato: mio padre era un uomo solitario”. “Oh,” gli ho fatto io, “tuo padre ha messo sulla tela le immagini che abbiamo dentro: si capisce che la gente lo vuole salutare”. A un certo punto, nel mezzo della messa, il prete ha detto a tutti: “scambiatevi il segno della pace”. Non l’avevo mai fatto, era un pezzo che non entravo in chiesa; ma capisco se l’altra persona ci crede per davvero. Lo stomaco mio lo capisce.

– D’accordo, ma dimmi del porto: non l’hai mai dipinto? Intendo col pennello, con la tecnica che vuoi: sartiame, reti, bitte, ruggine, relitti. Un pascolo adattissimo per un pittore.

– Ho dato io l’ultimo giro di chiave quando hanno chiuso il Cantiere Escavazione Porti, – prosegue lui spedito. Poi si accorge di quello che gli ho chiesto. – Come, non hai mai visto il porto nei miei quadri? Eppure tante volte ho pestato la ruggine per farne un colore. Perché poi l’avranno chiuso non arrivo a capire: il Genio Civile i lavori li faceva per davvero, mica come fanno adesso: compravano le draghe in Olanda dove hanno le tecniche e le modificavano per le esigenze di qua. Adesso non dragano più col cucchiaio: fanno i buchi col grappo. In questo modo il fondale rimane scavato, non liscio e spianato come lo lasciavamo noi. Hanno buttato via cinquant’anni d’esperienza per arrivare a questi risultati.

Dietro il bar si solleva come un dito beffardo la ciminiera dell’Italcementi, ormai orfana della sorella. Dov’era la grande fabbrica adesso si spalanca una bocca senza denti. 

– Come Dresda dopo i bombardamenti. Eh sì, il porto era il mondo: il lavoro si svolgeva tutto lì. Il Cantiere, la Sacelit, l’Italcementi. La Sacelit, che scaricava a ridosso della diga foranea i rifiuti d’amianto, e noi da ragazzetti facevamo il bagno in quel latte così caldo e scivoloso. Ci pareva bello. Sono cose che ricordi di sicuro, ma io te le risveglio.

– E queste navi? È tanto tempo che le vedo qui. Com’è che non le hanno completate? È fallito il Navalmeccanico?

– Le navi sono come le donne: quando ti portano al largo, quando ti lasciano a secco. Le nostre negli anni sessanta uscivano al sabato sera e tornavano a casa alle undici meno dieci. Le tedesche invece venivano in giugno, tranquille, facevano i loro turni e sparivano alla fine di settembre. Ma con loro non c’era passione. Ridevano. Una volta, ai primi giorni d’estate, un mio amico ha portato sulla spiaggia una tedesca e non ha messo niente sotto. La sabbia era talmente abrasiva che in mezz’ora si è giocato la stagione. Immagina lei. Come Dresda dopo i bombardamenti. 

Un suo amico. D’accordo: Ermanno se lo vuoi lo devi prendere com’è. Mi invita a casa sua perché vuole che veda i suoi quadri; e, dimentico della colica intestinale, propone come propedeutico un piatto di pasta coi broccoli fatta da lui: delizia della quale un uomo che apprezza la vita non si può privare. 

Il pomeriggio fila via quadro per quadro, con Klaus tutto lungo ai piedi del divano che rifiuta di tirarsi su. Pittura e motori. Pittura di motori. Pittura di giochi. Pittura come gioco. – Non ci vedo il mare, – dico io a un certo punto. Lui allora va a prendere un tavolinetto che ha trasformato nella scena di un naufragio plastico e accetta che gli faccia la fotografia. 

– Perché l’ho fatto? Così. Mi è venuto. – Parliamo nel buio fino a tarda sera, fino a quando gli dico: – Che facciamo adesso? mi riporti a casa? – E lui: – No, c’è il letto grande se vuoi. Dormiamo insieme come al motoraduno. C’è solo un problema: io prego; – e passa a raccontarmi di quanto è stato bello, quella volta che ha avuto l’incidente, nella luce che guida dalla vita alla morte parlare con Dio direttamente e dirgli: “Sai, io ho cercato di essere buono, ma purtroppo con scarsi risultati, adesso vedi un po’ se puoi fare qualcosa”; e poi ancora, sempre più fiocamente, delle donne che dormono abbracciate, degli uomini che dormono abbracciati alla motocicletta e di quanto potrà essere noioso il paradiso se San Pietro lo blocca per dirgli che il suo Benelli Leoncino costruito tutto a Pesaro eventualmente è meglio che lo lasci fuori.  

Leonardo Badioli

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