Fabio Mauri, uno degli artisti più significativi del dopoguerra

“Chi non trovasse l’infinito può venirmi a cercare a casa”

Abbiamo perso un grande artista, un pioniere in Italia dello sperimentalismo concettuale del Novecento. Nato a Roma il 1 aprile del 1926, Mauri era stato profondamente segnato dalle vicende della sua giovinezza, la guerra, la conversione, la follia, il dramma degli amici ebrei mai più tornati, la scoperta del fascismo. La sua opera si è sviluppata trasversalmente con mostre, conferenze, performance, teatro, facendo spesso dell’ideologia il soggetto/oggetto dei suoi atti espressivi.

   

di Maurizio Cesarini, Professore d’Arte

chi non trovasse l'infinito può venire a cercarmi a casa
Fabio Mauri, 1970
© Elisabetta Catalano

Mai come nel suo caso è applicabile il frustro adagio popolare che sono i migliori che se ne vanno, perché tutta la sua ricerca ha mantenuto nel corso del tempo un intimo rigore sia etico che politico, elementi di un vivere che continuamente ha messo in gioco, non preoccupandosi di una fittizia carriera artistica, ma ricercando incessantemente la verità delle cose.

Sin dalle prime esperienze emergono in Fabio Mauri una coerenza teorica ed un lucidità esemplari, sia che utilizzi medium tradizionali, sia che spinga l’atto artistico sul versante performativo e teatrale, ogni operazione che compie rivela una sottotraccia ideativa e riflessiva che hanno la determinazione di un pensiero filosofico.

Pensiamo solo ad opere come gli Schermi spesso bianchi o attraversati dalla dicitura the end, alludono ad una possibilità filmica, una sorta di di grado zero del cinema, il campo concreto su cui la proiezione determinerà lo svolgersi del racconto immaginario del film. Qui avviene già un significativo spostamento di senso, il telo da proiezione è vuoto eppure si dà come significante assoluto della forma filmica; è ciò che preesiste alla proiezione, il supporto senza il quale il film non può darsi, né essere visto.

chi non trovasse l'infinito può venirmi a cercare a casa

La stessa dicitura The end enfatizza ancor più la questione; su questa superficie il film è scorso, non rimane che l’attestazione linguistica del suo termine, m proprio questa permette di immaginare a ritroso un evento di cui percepiamo la soluzione, la sua evidente conclusione.

Ed ecco quindi le esperienze di stampo teatrale, gli eventi perforativi, gli episodi di stretta marcatura filmica, perseguiti senza soluzione di continuità in favore di una idea dell’arte che possa mostrare tra le sue pieghe l’epifania dell’essere e dell’esistenza.

Ma come si diceva anche l’ambito cinematografico è stato ampiamente utilizzato da Fabio Mauri e non poteva essere altrimenti, visto che gli Schermi avevano già posto il problema della definizione del discorso filmico, difatti nella performance-installazione significativamente intitolata Intellettuale, l’artista proietta un film direttamente su vari corpi e in particolare sul corpo del regista che ne è l’autore.

Nella fattispecie in questa occasione il Vangelo secondo Matteo viene proiettato direttamente sul petto di Pier Paolo Pasolini innescando un processo autoreferenziale dove l’opera torna, si incide nella carne di colui che l’ha pensata e realizzata.

Ma come spesso accade in Mauri l’evento si dà nel suo farsi, ma come una sorta di palinsesto lascia intravedere più piani di lettura, mostra la stratificazione di più sensi.

Ecco la diarchia tra il reale e il simbolico che può ritrovarsi nel lavoro di Mauri, il corpo reale del regista diviene oggetto, supporto di proiezione, il film oggetto simbolico smotta nel reale perché si dà, si fa evenienza del reale attraverso lo schermo corporeo di chi l’ha concepito.

E’ estremamente significativo che l’artista riprenda questo evento, dopo la morte del regista, proiettando il film sulla sua camicia, enfatizzando ancor più il senso dell’operazione, l’indumento diviene sineddoche di una esistenza perduta ed il film che trovava accoglienza sul corpo dell’autore diviene l’elemento reale che catalizza e rivitalizza la sua mancanza.

Così assume valore paradigmatico anche l’installazione intitolata Muro occidentale o Muro del Pianto, enorme baluardo costituito da valigie, bauli, sacchi, casse di varie epoche dagli anni venti ad oggi e di varie nazionalità.

In opposizione a chi assume la diversità come elemento di divisione, Mauri propone la ricchezza di chi pur professando diverse religioni e provenendo da luoghi lontani, costituisce un baluardo contro i razzismi etnici e religiosi.

Inoltre le varie nazionalità citate indicano un errare, attraversare, abitare terre sempre nuove, luoghi, reali, che però divengono luoghi dell’immaginario, spazi dove sia possibile convivere nel reciproco rispetto e con l’idea che finalmente l’essere e l’esistenza possano manifestarsi pienamente.

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