La nostra nella voce di tante

Le equilibriste

 

le equilibriste

 

Mia figlia ha due anni, dieci mesi, cinque giorni e dodici ore. Quando ride, chiude gli occhi. Anche quando bacia. Bacia tutti. Nella culla aveva un forte odore di gatto. Forse sono solo io ad immaginarla così, ché vorrei, con le labbra, prenderla dalla nuca e toglierle peso. Il peso della vita. La sniffo, come una dipendente in astinenza, e penso che se non ci fosse più, scomparirebbe il mondo, il sole, l’acqua, la terra. Anzi non ci penso, perché se non ci fosse, io non esisterei. Non più. Ha l’anima che vorrei avere. Se fosse altro, sarebbe un bignè. Da mordere. Da quando c’è, ho sì le ossa oltre la carne, ma mi fingo grassa, perché credo che è solo così che posso darle sostegno. Lei potrebbe aggrapparsi a me per spiccare il volo. Invece, sulla solita altalena blu, le mie braccia esili faticano anche a spingerla.  “In cielo, mamma, voglio andare, più su”, mi dice sempre. “Sì, più su, amore. Ora ti spingo più forte. Fino alle stelle”. Te lo giuro, amore, è lì che ti vorrei portare a de-siderare tutto ciò che per te è la gioia. Quando mi abbraccia forte, nonostante la mia fragilità di peso e di spirito, per un attimo penso di essere la sua felicità. Ma solo per un attimo. Essere madri è trovare l’equilibro tra il piacere e i sacrifici, il tempo che passa, la bellezza ed un ergastolo sentimentale. Lei vuole correre ed io inciampo sempre. E lei ride, e non sa che non smetterò mai di avere paura. Mai nome fu più appropriato, penso ogni qualvolta la stringo a me.

Si chiama Mia. E’ mia nel sangue, nel cuore. E’ mia, nonostante la giostra di sentimenti che mi fa sobbalzare e le rughe che scavano solchi ogni giorno più profondi. “Dopo un figlio la tua faccia cambia, vedrai”, diceva nonna Lisa davanti al mio stratosferico pancione. Infatti, quando Mia mi guarda, vedo la mia faccia che mi sta guardando, magari non quella che ho addosso, ma quella che avevo da bambina, o quella che ho quando sono triste, o scema, o spaventata, o risoluta. “E’ vero, nonna, cambia la faccia. Lo specchio della mente me ne regala sempre di nuove”. Non cambia solo la faccia, nonna. Ecco, ora lo dico, dopo un figlio cambia tutto. Niente è più come prima. Il tuo corpo, il tuo lavoro, i tuoi pensieri, la tua indipendenza. A calci prendi la vita di ieri e a sgomitate devi afferrare quella di oggi. Non ho lunghe le unghie per graffiare. Ho lavorato per otto anni in una redazione di un settimanale d’informazione, di stampo civico, solidale, umanitario. “Ti fanno fare l’assistente sociale e non la giornalista, piccola mia”, asseriva la solita nonna Lisa, sempre attenta e premurosa sulla mia vita. Io intanto dovevo guardare da vicino quella degli altri. Ascoltavo storie di uomini che fanno male alle donne e di donne che fanno male a se stesse, ma ascoltavo anche storie di coraggio, di chi era riuscito a salvarsi, e se dal letame nascono i fiori c’era anche chi nel letame ci guazzava. Fa sempre comodo provare pietà per qualcuno, le nostre esistenze ci guadagnano. Illuderci di poterli aiutare, allevia le coscienze, ci fa anche credere di essere migliori. Di giorno ascoltavo e ascoltavo e di sera scrivevo. Mettevo in prosa le interviste, i racconti. Sempre inadeguata. Le parole (troppe) soffocano le emozioni, la verità e ne rilevano, spesso, la mancanza di senso. Eppure era un lavoro che amavo. Non avrei potuto fare nient’altro con lo stesso ardore. “Sei carta assorbente, fattele scivolare addosso”, quando sono giù c’è sempre la nonna. Finché un giorno il direttore del giornale mi invita a prendere un caffè. “Sei brava. La tua rubrica è molto letta. Sai usare le parole. I lettori entrano in empatia con ciò che scrivi. Ti meriti una promozione”. Volavo.

Tre giorni e diciannove ore dopo ho scoperto di essere incinta. Un minuscolo feto navigava nelle mie acque ed io ero in mare aperto. In caduta libera. Il mio lavoro era tutta la mia vita e se ce n’era un’altra che cresceva dentro me, l’una avrebbe escluso l’altra. Ma il peggio diventava ufficiale. L’articolo 18 – occorreva un microscopio per leggerlo, tanto era occultato – del mio contratto citava (testualmente): una donna che collabora con partita Iva rischia il licenziamento se la produttività viene compromessa dalla gravidanza. Ecco, questa è la società dove mi è toccato vivere. Dovevo scegliere tra l’essere mamma e il rimanere assunta. La scelta l’avevo già fatta, dal profondo. La mia gravidanza era un dono al quale non avrei rinunciato. Non sono una donna prudente. Ma che mondo è quello che mi ha chiesto di fare una scelta del genere? Trascorsero giorni senza equilibrio. Le lancette del tempo si fermarono. Mal di pancia, mal di stomaco, voglia di vomitare. Ma non per la gravidanza. Per lo schifo intorno. Senza quel lavoro mi sentivo un niente. Una che avanzava ciondolante con un sacco sul davanti. Un niente con un altro cuore che batteva dentro. Allora mi sentivo viva. Nonostante la rabbia, il pianto, il non detto, lo stradetto, il non fatto, il rospo in gola. “Gli ostacoli sono come le pietre sul sentiero, appigli per la salita”, nonna Lisa parla così, per immagini. I pomeriggi li passavo da lei, con le sue tisane di melissa e tiglio e le tazze di maiolica. Da che non avevo un minuto libero, mi ritrovai ad avere tutto il tempo a disposizione. Alle volte non sapevo di cosa riempirlo. Mi sforzavo di metterci i sogni, ma non ci riuscivo. Ero alla ricerca del senso delle cose e non lo trovavo, così mi torturavo nell’inquietudine. Ma non mi sono mai persa del tutto. Lei dava i primi calcetti ed io iniziavo a rinunciare all’autocommiserazione. Ho smesso di scrivere poesie deprimenti E pensare che domani bruceremo come foglie rinsecchite. Nonostante non abbia l’abitudine di mettermi a mani giunte, guardai in alto. Verso la luce. Poi le mani le portai alla pancia e sentii una felicità lieve. In punta di piedi rientrai nella vita. Come un’equilibrista, sul filo.

Dei giorni avevo voglia di gettare la faccia, affondare le gambe, sprofondare ancora più giù. Altri, invece, godevo di una beatitudine inaspettata. Della mia nuova lentezza. Le passeggiate al mattino, tutti i libri che avevo sempre voluto leggere, il cinema il giovedì, il silenzioso nel cellulare. I miei nuovi spazi bianchi sapevano essere anche tenerissimi. Mi commuovevo puerilmente davanti a piccole cose. Bastava un ferrame abbandonato per immaginarmi una bicicletta e mia figlia seduta sopra. I giorni passavano nell’alternanza di ombre e luci, finché con l’arrivo dell’Inverno, Mia, decise di venire al mondo e scaldarmi come nessuno ci era riuscito mai. Le donne sanno nascondersi – io nelle storie che scrivevo – ma quando spalancano le gambe per generare vita, escono allo scoperto. Acquistano forza. Scovano i predatori. Trovano le risposte alle domande più profonde. Io con Mia ero un’altra, ma alle prese, disgraziatamente, con una realtà pratica nient’affatto di belle speranze. E’ troppo lungo l’elenco delle cose che non avevo. Molto più sbrigativo l’altro: Mia e nonna Lisa e anche una casa di proprietà che rendeva il mio I.S.E.E. non idoneo a qualsiasi richiesta di sostegno economico. Il mio Stato se ne fotteva che ero sola, disoccupata, con una figlia a carico. Anzi, ogni qualvolta mi avvicinavo nella richiesta di aiuto, quasi mi minacciava di togliermi anche la casa. Facevo parte della schiera delle donne senza contratto, senza niente. Come facevo a permettermi un tetto sopra la testa mia e di mia figlia? L’indignazione aumentò – e di conseguenza anche il pianto di Mia – quando ricevetti un’email da Annarella, la mia amica che da anni vive a Berlino. Lo Stato dà soldi alle donne quando rimangono incinte, 1000 euro quando partoriscono e 200 euro al mese per ogni figlio fino alla maggiore età. A chi non ha abbastanza entrate gli viene pagato l’affitto per ottenere una casa più grande. Sono anni che dico che voglio andarmene dall’Italia e anni che resto. Maledico questo sputo di paese, questo stivale che cammina all’indietro, che non sa guardare avanti.  “Sono sempre innamorata di questa lercia Italia – nonna Lisa mentre annaffia la Dipladenia bianca – le dico che è lercia, e seguito ad amarla”. La mette in casa per farle superare un altro Inverno “l’Italia si può salvare”. Nonna, cosa dici, io invece mi salverò? Le stagioni intanto passavano e le ore me le scandiva Mia. I suoi bisogni erano le mie impellenze, i suoi sorrisi le mie gioie. Mi toglieva l’appetito e il sonno, voleva tutte le attenzioni. Ma era solo così che dovevo imparare a godere della bellezza. La vita aggiunta dopo, me lo rivelò. “E queste non sono lacrime?”. “No, non so mica da dove vengono”. Nonna iniziava a preoccuparsi della mia vulnerabilità. Tutto nuovo. Io con Mia ero veramente un’altra cosa, accidenti.

Finché arriva un altro Inverno. Il terzo. Più mite dei precedenti. Certe notti c’è tempesta di stelle. Nessun accenno di neve. Eppure il bianco, dentro me, la fa da padrone. Spero che non sia il nero che si nasconde, ma intanto, assaporo questa specie di rinascita. Questa consapevolezza che il bianco racchiuda molti colori. Ho una visione del futuro più chiara, meno spaventata. Mia cresce bene. Ed io non penso di essermi annullata per lei, in questi anni. Ho semplicemente salvaguardato il nostro legame. L’ho accudita, come la natura richiede. Mi prendo cura di lei, ancora oggi. A tempo pieno. E’ un mio diritto. Una mia scelta. Al parco, vicino casa, Mia imbacuccata ha scelto lo scivolo grande. La guardo salire i gradini. Potrebbero essere i gradini della vita. Che fare? Condurla sempre per mano? O intervenire solo quando rischia di cadere? Quante volte sono precipitata io? Allora, sostenerla a distanza? Non lo so. Intanto la guardo da giù. Con gli occhi del mondo. Tornano le lacrime, d’impotenza. Hanno niente da rimproverarmi e smettono da sole. Un’altra mamma mi si ferma accanto. Sua figlia gioca con la mia. “Va ancora al nido? La mia da quando ci va, è diventata più socievole e anche più giudiziosa”. “No, non ci è mai andata. L’ho tenuta con me”. “E alla materna dove andrà? Io e mio marito abbiamo deciso per la scuola in centro. Anche se è un po’ fuori mano, ci sono delle ottime insegnanti…”. “Non lo so ancora”. Ci metto uno spazio largo di silenzio. Libero i pensieri da un’altra parte. A Mia che non ha dormito dopo pranzo e stasera si addormenterà presto e così, poi, potrò mettermi al computer. Ho ricominciato a scrivere, per un quotidiano online. Ho un mio blog all’interno del sito. I commenti sotto gli articoli mi fanno sperare che sia seguito.

 

Letizia Stortini

 

 

2 thoughts on “Mamme costrette a lasciare il lavoro

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