DA CASA A MUSEO

UN’ OPERA DI RESTAURO SBAGLIATA

SOLO UN PRODOTTO DELL’INDUSTRIA CULTURALE

 

Ho lasciato passare qualche tempo prima di esprimere un pensiero, e più ancora un sentimento, a proposito del restauro del Palazzetto Baviera. Non volevo fare il guastafeste nel momento in cui tutta la città era contenta di poterlo finalmente rivedere. Posso dire oggi senza tema di disturbare nessuno che il nuovo assetto dato dal restauro al Palazzetto non mi piace. Anzi, di più: che lo trovo ideologico e sbagliato. Anche a non spendersi troppo nel discutere su che cosa è esattamente “restauro”, ogni visitatore che conosca già il Palazzetto non può che trovarlo pesantemente alterato. Malgrado le autorità politiche e culturali ripetano che si tratta di una “casa-museo”, a me è parso, entrando, di aver visto un allestimento museale e non quella che per quasi cinquecento anni è stata un’abitazione coronata da un meraviglioso soffitto.

Una prima deprivazione è data dall’immersione nel bianco. Il bianco cancella tutto. Prendete qualsiasi oggetto, una mela per esempio, verniciatela di bianco e apparirà come finta. Cancellata e privata di ogni arredo domestico (anche se mi dicono che verrà restituito), la casa dei Baviera è stata sacrificata al suo pregio maggiore. Non credo che Federico Brandani, pur conscio del suo capolavoro, abbia mai chiesto ai committenti un simile sacrificio.

Se poi, così facendo, da una parte l’oggetto-stucchi guadagna dall’osservazione della sua esclusività, perde però miseramente di pregnanza la relazione dell’opera con il contesto culturale che l’aveva promossa e motivata: quello di un’abitazione in epoca tardorinascimentale. Sterilizzato dal vivere e dall’abitare, e interamente consegnato a un’ammirazione priva di riferimenti, il restauro del Palazzetto trasforma il soffitto di Brandani in un feticcio, e le immagini che vi compaiono in arcani: non certo perché la maggior parte dei visitatori non ne comprende né il significato né il senso (ovviamente non tutti possono essere studiosi del mondo rinascimentale) ma perché il visitatore è invitato a contemplare un oggetto-monstre e non una casa costituita in opera d’arte. Dove prima erano mobili, quadri, tappezzerie, adesso impera, come un cuculo nel nido altrui, uno show-room dell’arredo museale. Un’operazione violenta, a ben vedere. La perdita di relazione, dunque uno spaesamento, è il prezzo che si paga per l’omologazione di un’opera d’arte al sistema museale.

La stessa sensazione credo di avere provato entrando nella chiesetta medievale di San Vittore di Genga: una costruzione di pietra che ammette solo piccole feritorie che tagliano la luce: appena entrati, subito sopra la porta  si accende un faro da non so quanti watt che illumina fino all’ultima screpolatura. “Ma perché”, mi domandavo, dovremmo violare il carattere di una costruzione nata apposta con l’ombra?”.

Illuminata, la chiesa resta un significante senza più significato. Ma almeno  è possibile tornare indieto. Nel caso del Palazzetto, diversamente, non basterebbe più soltanto spegnere la luce, oppure aprire le finestre, che l’illuminazione del soffitto pretende costantemente chiuse. Qui la manipolazione travestita da valorizzazione sembra irreversibile.

Si potrebbe ribattere che storicamente anche altri interventi siano stati arbitrari; per esempio quello che Barbara Baviera concepì assegnando una nostalgia trecentesca e ogivale all’aspetto esteriore della costruzione. Tuttavia è innegabile che l’abitarci abbia reso ogni successiva modificazione in qualche modo evolutiva, mentre questo estremo passaggio da casa a museo segna un discrimine definitivo dopo il passaggio alla proprietà pubblica dell’edificio.

Lo stratagemma dello specchio, infine, e l’idea di feticcio e del suo arcano mi rimandano a letture fatte e amate tanto tempo fa, quando la mia generazione era interessata al pensiero di Horkheimer e Adorno. I due francofortesi avrebbero visto in simili operazioni un prodotto dell’industria culturale e dei suoi processi di standardizzazione distributiva volti a deviare la domanda di un mercato di massa – quello turistico nel caso. In questa prospettiva, “ciò che si imprime è la successione automatica di operazioni previste e regolate. Il piacere si irrigidisce in noia, perché, per restare tale, non deve costare alcun altro sforzo (neanche quello di alzare la testa!) e deve quindi muoversi nei binari delle associazioni consuete”; a questo scopo il feticismo dell’opera d’arte “interviene in modo pervasivo sulle modalità di fruizione dei beni, sapientemente contraddistinta dall’amusement e dall’easy listening” (H&A, Dialettica dell’Illuminismo). Quand’è così, però, il progresso culturale si trasforma nel suo contrario. Si trasforma nell’illusione di avere conosciuto.

Dicono che in questo modo molte più persone potranno apprezzare un’opera così bella; ma i due amici tedeschi ormai da ottant’anni avevano pronta la risposta: “La costituzione del pubblico fa parte del sistema e non lo scusa”.

 

dopo il restauro di Palazzetto Baviera
Palazzetto Baviera com’era

 

 

dopo il restauro di palazzetto baviera
l’antica sala d’ingresso

 

dopo il restauro di palazzetto baviera
Altra immagine (la più conosciuta) di come era Palazzetto Baviera con gli stucchi del Brandani

 

dopo il restauro di palazzetto baviera
Dopo il restauro di Palazzetto Baviera: il soffitto ritrovato e il senso perduto

 

                             

                                                                                                         Leonardo Badioli

 

 

 

3 thoughts on “Dopo il restauro di Palazzetto Baviera

  1. Sono comunque 16 anni che aspettavamo. Bello o brutto (che non è), meglio che ci sia. Un pezzo della Senigallia non andato perduto.

  2. Grazie, Roberto, per avere mandato questo commento.
    Come hai visto, lo desideravo. Così credo i lettori.
    Hai ragione. Dopo sedici anni di attesa ci possono anche passare certe fantasie.
    Del resto, in tempi di bene o male e di meno peggio, è già tanto che il soffitto sia ancora lì.

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